Il Presidente Xi Jinping ha fatto sapere che la Cina ridurrà le sue emissioni del 65% entro il 2030. Ma la politica ambientale cinese punta alla carbon neutrality
L’obiettivo del 2030
Cinque anni dopo Parigi, non stiamo ancora andando nella giusta direzione. Gli impegni presi a Parigi, lungi dall’essere sufficienti, non vengono rispettati (…) Se non cambiamo rotta potremmo essere diretti verso un catastrofico aumento della temperatura di oltre 3 gradi in questo secolo
(António Guterres)
Il segretario generale dell’ONU António Guterres, durante il Climate Ambition Summit ricorda gli impegni improrogabili in materia di salute ambientale. Guterres ci tiene a ribadire che il mondo è ancora lontano dal raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi sul clima, anche se ci sono esempi virtuosi. Una risposta positiva arriva da uno dei grandi del G20: la Cina di Xi Jinping ha infatti reso noto il suo intento di diminuire le emissioni di CO2 del 65% entro il 2030. Per la politica ambientale cinese è sicuramente un obiettivo impegnativo, ma che ha anche l’intento di attirare l’attenzione sul contributo del Paese nell’accordo di Parigi.
Entro il 2030, la Cina ridurrà le sue emissioni di CO2 per unità di Pil di oltre il 65% rispetto al livello del 2005; aumenterà la quota di combustibili non fossili fino a quasi il 25% in consumo di energia primaria; aumenterà il volume delle foreste di 6 miliardi di m3 sulla base del 2005 e porterà la capacità totale installata di energia eolica e solare a oltre 1,2 miliardi di kilowatt
(Xi Jinping)
La Cina è il quarto produttore eolico al mondo, dopo Stati Uniti, Germania e Spagna; ma non intende fermarsi e prosegue a passo serrato. A tal proposito Xi Jinping ha dichiarato di voler portare al 25% la quota di energie pulite in Cina. Questi impegni sul fronte climatico hanno lo scopo di aprire la strada a un progetto ben più ambizioso: raggiungere la neutralità carbonica entro il 2060. L’intenzione è azzerare le emissioni nette di anidride carbonica prima del 2060 in tutti i settori: dalle industrie all’edilizia, fino ai trasporti. A questo scopo si è aggiunto anche il piano di rimboschimento, iniziato già lo scorso agosto nella Regione Autonoma dello Xinjiang Uygur dove si è previsto di piantare 330mila ettari di boschi.
Politiche verdi
La Cina già da tempo è protagonista del rinverdimento del pianeta. Dal 2000 al 2017 la superficie verde del globo è aumentata del 5%, con un contributo del 25% proveniente dalla sola Cina. Queste conquiste sono state riconosciute dall’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) che nel 2019 ha conferito alla Cina il Motivation and Action Award per il suo progetto Ant Forest. Questo progetto, dall’agosto del 2019, ha spinto circa 500 milioni di persone a condurre una vita a basse emissioni di carbonio.
Un’altra conquista di Pechino riguarda il primo obiettivo di riduzione di CO2, raggiunto con tre anni di anticipo. La Cina, infatti, si era prefissata di abbattere le emissioni del 45% entro il 2020, ma arrivando a portare a termine il traguardo già nel 2017 con un -46%. C’è da tenere a mente che il Paese asiatico è responsabile, da solo, del 28% delle emissioni globali di anidride carbonica ed è la più grande consumatrice di carbone al mondo. Gli obiettivi prefissati sono ambiziosi ma sembra che per ora non stiano scalfendo le promesse fatte.
La Belt and Road Initiative
La politica ambientale cinese investe anche la Belt and Road Initiative. Chiamata anche Nuova Via della Seta, è un insieme di progetti finanziati dalla Cina vòlti alla creazione di infrastrutture commerciali, impianti per la realizzazione e distribuzione di energia e per sistemi di comunicazione in tutto il mondo. Un piano globale, insomma, atto a facilitare le comunicazioni e i trasporti tra aziende cinesi e il resto del mondo. Lo scorso anno la Cina ha fatto sapere di voler far diventare la Belt and Road una “strada” verde. Per farlo ha proposto un meccanismo che disincentiva le banche nell’investire in progetti nocivi per l’ambiente e firmando accordi con diverse cooperazioni internazionali interessate all’iniziativa.
È stato, poi, creato un sistema a tre livelli che segnala, con una scala di colori (rosso, giallo, verde), l’impatto ambientale di tali progetti; in questo modo le banche sanno quali controlli effettuare prima di investire in un dato programma. Quelli rossi sono i programmi che richiedono controlli più severi, come le centrali a carbone e gli impianti petrolchimici; quelli in giallo indicano le infrastrutture con un impatto ambientale su cui è più facile intervenire, ad esempio il trasporto merci; in verde invece ci sono i progetti legati a fonti rinnovabili.
Secondo il Financial Times questo tipo di classifica farebbe allineare la Cina ad altri 120 istituti finanziari che hanno adottato misure analoghe.
Le contraddizioni
Nonostante i nobili obiettivi che sembrano anche procedere bene, non mancano le contraddizioni nella politica ambientale cinese. La Cina, infatti, continua ad essere dipendente in larga parte dal carbone che genera ancora il 60% dell’energia del Paese. La China Development Bank e la Export-Import Bank of China, due delle più importanti banche cinesi, non si sono impegnate a disinvestire nel combustibile fossile. È proprio questo utilizzo massiccio del carbone che mina il raggiungimento delle zero emissioni entro il 2060. I passi fatti nell’eolico e nell’energia solare, infatti, sono nulli se continuano gli investimenti in questa fonte non rinnovabile di energia. In media, la Cina, ha installato due turbine eoliche l’ora nell’ultimo anno, rendendo il Paese il più grande investitore nelle energie rinnovabili. Ma dall’altro lato ha continuato a costruire centrali a carbone, compensando in negativo le quote raggiunte dall’energia pulita.
Con i suoi investimenti nell’energia eolica e solare la Cina supera il primato degli Stati Uniti. Si tratta, quindi, di una sorta di greenwashing usato per competere tra potenze mondiali nell’egemonia dei mercati. Ovviamente nessuno è tanto ingenuo da credere che la politica ambientale cinese, e di qualsiasi altro Paese, sia scevra da interessi economici, politici e finanziari. Tuttavia la questione ambientale è reale e le conseguenze del declino climatico innegabili; queste urgenze rendono necessari degli interventi forti. L’auspicio è che gli obiettivi concordati a Parigi vengano rispettati e non resi infruttuosi con investimenti controtendenza per interessi economici e poco lungimiranti.
Marianna Nusca