Make Amazon Pay è una campagna internazionale lanciata per coordinare azioni di protesta dei lavoratori nei magazzini di Amazon. Vi partecipano 15 paesi diversi, tramite organizzazioni attiviste dagli Stati Uniti, India, Italia, Norvegia, Germania, Canada, Inghilterra oltre a numerose organizzazioni internazionali. I punti focali della protesta sono stati riassunti nel documento pubblico di Intenzioni Comuni (disponibile sul sito): si chiedono maggiori diritti dei lavoratori e sicurezza occupazionale, migliori condizioni di lavoro, maggiore sostenibilità e responsabilità sociale.
Durante la pandemia da Covid-19, Amazon è diventata una compagnia da trilioni di dollari, monopolizzando ulteriormente un mercato che però è stagnante. La compagnia è stata molto competitiva, sempre efficiente ed affidabile ma negli anni ha visto crescere il malcontento dei suoi lavoratori. Problemi come salario basso, sorveglianza forzata e la poca trasparenza verso l’esterno hanno insospettito un crescente numero di paesi riguardo all’etica del colosso statunitense.
I problemi di Amazon non sono andati ad attenuarsi con l’arrivo della pandemia. Anzi, si può dire che proprio a causa di quest’ultima, si è venuta a creare una coalizione internazionale.
L’escalation della protesta Make Amazon Pay
Ad aprile di quest’anno, i lavoratori dei magazzini insieme ad alcuni impiegati d’ufficio, avevano protestato con picchetti e scioperi in strada, negli stati di New York, Illinois e Michigan. In quanto lavoratori essenziali, i protestanti denunciavano condizioni di lavoro insicure, paga e copertura per malattia insufficienti nonostante la situazione di emergenza.
Ad ottobre, un corteo si è recato sotto casa di Bezos stesso, a Beverly Hills, per protestare ancora per salari più alti, equipaggiamento protettivo, e assistenza all’infanzia gratuita.
Finalmente questo Novembre, per il Black Friday, si è visto un tentativo coordinato di protesta, che ha coinvolto, 15 paesi diversi nelle rispettive sedi Amazon. In Francia, ad esempio, si è deciso di spostare il Black Friday a venerdì 4 dicembre, in modo da dare tempo ai negozianti tradizionali di riorganizzarsi con l’apertura dei negozi il 28 novembre. In Italia è scesa in campo la CGIL con la sua iniziativa “Red Friday” che si è svolta online su Collettiva.it per parlare dell’assenza di diritti per i lavoratori dell’azienda.
Un movimento globale era necessario. Amazon è una realtà molto uniforme e globalizzata, in cui però le associazioni di lavoratori non hanno potere e dove chi ha tentato di organizzare scioperi è stato poi licenziato.
Una tassazione ingiusta
La presenza di Amazon in uno stato è ormai considerata essenziale. In questo modo il gigante ottiene sconti sulle tasse in cambio dell’apertura di uno dei suoi centri.
“Il successo di Amazon è dovuto all’esistenza di istituzioni pubbliche che i cittadini hanno costruito di generazione in generazione” – Make Amazon Pay
Fino al 2016 però, in America, l’e-commerce poteva vendere senza pagare tasse statali. Nel 2017 poi, questa legge è stata modificata e Amazon avrebbe dovuto iniziare a pagare le tasse. Invece, continuava a pagare 0% di imposte, in assenza di una legge per la tassazione dei venditori di terza parte su siti web. Sotto pressione dell’allora presidente Trump, nel 2019, Amazon ha pagato l’1.2% del suo fatturato in tasse agli stati Uniti, dove ha sede legale.
Un business model ecologicamente insostenibile
Secondo il report di Greenpeace, (anch’essa parte della coalizione Make Amazon Pay), Amazon dovrebbe essere sottoposto anche a una regolazione circa le emissioni di CO2, legate al suo immenso apparato di logistica, cloud e trasporti. Tuttavia se gli stati continueranno a supportare l’apertura di nuove e più grandi warehouse, si dovranno fare i conti con delle emissioni pari ai 2/3 di tutti i paesi. Dai bilanci di Amazon per le emissioni di CO2 si vede un aumento da 44 mil di ton/CO2 equivalente emesse nel 2018 a 51,17, nel 2019. L’impatto ambientale è aumentato del 15 %, soprattutto a causa dell’apertura di nuovi magazzini sul territorio.
Durante la pandemia poi, Amazon ha visto una crescita dell’ 80% sul fatturato di inizio anno. Insieme ad esso, il valore netto del CEO Jeff Bezos, ($115 miliardi l’1 di gennaio) è cresciuto proporzionalmente a $200 miliardi. Ora Bezos è l’uomo che ha accumulato più ricchezza personale al mondo. L’11% di azioni di Amazon corrispondono al 90% circa della sua fortuna. Bezos però possiede anche il Washington Post, la Blue Origin ed ha altri investimenti privati. Amazon quindi ha gli strumenti necessari per esaudire le richieste della campagna. Purtroppo però il focus sulla competitività economica sembra impedire alla società un progresso sia sociale che ecologico.
Gli organizzatori hanno già creato una proiezione con lo slogan “Make Amazon Pay” su alcuni edifici di Amazon a Londra, Berlino e Hyderabad. E’ possibile esprimere solidarietà con la campagna tramite l’hashtag #MakeAmazonPay o iscrivendosi direttamente al sito così da firmare la petizione che verrà inviata a Jeff Bezos direttamente. Il sito nasce anche come un fondo aperto a donazioni per finanziare i prossimi scioperi in giro per il mondo.