Secondo il WWF il 33% degli stock ittici viene sovrapescato, mentre il 60% è sfruttato al massimo delle capacità.
L’allarme di WWF e FAO
Il problema della pesca insostenibile viene discusso da anni. A lanciare l’allarme, oltre al WWF, anche la FAO nel suo rapporto The State of World Fisheries and Aquaculture del 2020. La pesca eccessiva procede a ritmi troppo serrati che le specie non sono in grado di reintegrare; questo riduce la popolazione ittica e, conseguentemente, la produzione di cibo. Nel 2017 oltre il 34% degli stock ittici è stato classificato come sovrasfruttato: un dato che non è diminuito negli anni. Con un 78% di stock sovrasfruttati solo nel Mediterrano, il problema risulta mondiale ma più preoccupante nei Paesi in via di sviluppo.
Mentre i paesi sviluppati stanno migliorando il modo in cui gestiscono le loro attività di pesca, i paesi in via di sviluppo affrontano un peggioramento della situazione. Notiamo che la sostenibilità è particolarmente difficile nei luoghi in cui esistono fame, povertà e conflitti (FAO)
I Paesi in via di sviluppo
Questo non vuol dire che la causa siano i Paesi in via di sviluppo, che hanno bisogno di sostentamento e devono competere con lo sfruttamento del mercato occidentale e di multinazionali. Essi generano il più grande volume di pescato a livello mondiale, di modo che il mantenimento della maggioranza della popolazione dipende dalla pesca.
Questi paesi saranno -e sono- tra le prime vittime di questa pesca insostenibile, subendo le conseguenze della scarsità delle risorse ittiche.
Secondo un report del WWF del 2017, entro il 2050 milioni di persone nei Paesi in via di sviluppo non potranno permettersi di consumare pesce.
Se questa può apparirci una rinuncia tutto sommato abbordabile, è solo perché viviamo nel benessere e possiamo ancora permetterci scelte alimentari di ogni tipo. Ma è importante sottolineare come i prodotti ittici costituiscano, per molti, una base essenziale di cibo e fonti proteiche. Oltre a questo va ribadito il nostro ruolo di consumatori: infatti il 61% del pesce che il mondo sviluppato importa arriva proprio da questi paesi. Mentre miglioriamo la gestione della nostra produttività pesiamo su quella altrui: tutto ciò non fa che contribuire allo sfruttamento delle risorse e all’incremento della povertà di queste popolazioni.
L’Unione Europea è la più grande importatrice al mondo di pesce e più del 50% delle sue importazioni arriva da Paesi in via di sviluppo. La responsabilità appare evidente ma il potere derivante dalla posizione economica può influire sulle scelte di mercato e nella rivendicazione di pratiche sostenibili.
La domanda crescente
Si deduce, quindi, che uno dei fattori ad aver contribuito alla pesca insostenibile sia la richiesta di prodotti ittici. Il consumo mondiale di pesce, infatti, è aumentato di oltre il 20% in meno di cinquant’anni, alimentato anche da pratiche di pesca illegale; un suo calo si stima avverrà solo quando la richiesta non potrà essere soddisfatta, ovvero quando non ci sarà più pesce per tutti. Secondo la FAO il consumo di pesce ha raggiunto, nel 2018, la cifra record di 20,5 kg pro capite l’anno, dato destinato ad arrivare ai 21,5 kg entro il 2030.
Questo sta mettendo a rischio la conservazione di molte specie. Secondo l’IUCN (International Union for Conservation of Nature) i pesci più in pericolo sono, come intuibile, quelli maggiormente commercializzati: l’anguilla è quella che affronta il declino maggiore, classificata in pericolo di estinzione; la cernia, tra le più sovrapescate e con una popolazione in decrescita; la triglia del Mediterraneo, la cui pesca non è regolamentata da limitazioni; il pesce spada, in declino in tutto il mondo a causa della elevata richiesta; la verdesca, vittima di pesca sportiva o di pesca accidentale.
Cambiamenti climatici
Al problema della domanda crescente si aggiunge quello del cambiamento climatico globale, con molteplici conseguenze sui mari. Tra queste: il surriscaldamento delle acque, innalzamento dei mari; l’acidificazione delle acque, che ostacola il processo di calcificazione di alcuni organismi marini come gamberi e ostriche. Un problema che sta toccando, per ora, soprattutto l’emisfero sud del mondo.
A questi si aggiunge la distruzione di interi ecosistemi, dovuta anch’essa ai cambiamenti climatici ma anche all’intervento diretto dell’uomo. In mancanza del suo ecosistema una specie si riduce drasticamente, con conseguenze che ricadono anche sulla catena alimentare.
Gli effetti dei cambiamenti climatici si ripercuoto anche negli allevamenti ittici, la cui fisiologia risente dell’aumento della temperatura dell’acqua. Ogni specie, infatti, necessita di parametri biologici e ambientali specifici per la sua riproduzione; parametri che inizia ad essere difficile soddisfare.
I cambiamenti climatici, inoltre, provocano eventi atmosferici estremi che possono favorire la circolazione di parassiti e malattie. Questi ultimi possono, poi, spostarsi in aree dove prima erano sconosciuti e proliferare grazie alle acque più calde. Se a questo si aggiunge che anche gli allevamenti intensivi indeboliscono il sistema immunitario dei pesci, il quadro è ancora più preoccupante.
Un altro dato che emerge dalla FAO riguarda, invece, le alghe. L’aumento delle temperature dei mari e l’incremento dell’intensità delle precipitazioni incidono sulla durata e la frequenza della fioritura della alghe. Tra queste si contano 75 specie in grado di trasmettere tossine velenose a crostacei e pesci. La Norvegia, ad esempio, è stata colpita lo scorso anno dalla più grave fioritura di alghe velenose degli ultimi trent’anni.
Cosa fare
Ognuna di queste problematiche, come si intuisce, si ramifica in una serie di conseguenze concatenate le une alle altre. Appare, quindi, fondamentale interrompere la catena e invertire la rotta di questa pesca insostenibile per salvaguardare i nostri mari.
Per fare questo sono cruciali regolamentazione e controlli efficaci sui metodi di pesca. È importante, poi, creare una legislazione per la regolamentazione delle risorse ittiche considerate patrimonio interazionale; in questo modo la pesca insostenibile delle multinazionali non avrebbe il favore dei vuoti legislativi. Uno strumento per limitare questo problema esiste già e sono le Organizzazioni Regionali di Gestione della Pesca: organismi internazionali composti da stati che hanno interessi comuni in materia di pesca. Le ORGP possono in parte controllare il problema regolarizzando lo sfruttamento degli stock ittici in determinate aree. Un’altra soluzione è l’incentivo di pratiche di pesca sostenibili e di acquacoltura.
A tutto ciò si aggiunge il nostro potere come consumatori nella scelta non solo di prodotti certificati, ma anche in una alimentazione a base maggiormente vegetale. È importante, poi, accrescere le nostre conoscenze così da renderci fruitori consapevoli di un prodotto, in grado di capire le problematiche dietro le nostre scelte e cambiare ciò che ci viene proposto.
Marianna Nusca