Continuano negli Stati Uniti le proteste del mondo accademico contro la piattaforma di teleconferenza Zoom, accusata di aver censurato alcuni seminari universitari. Ma possiamo davvero pretendere che siano i giganti del web a farsi garanti della libertà di espressione?
Università americane sul piede di guerra contro Zoom e la censura, dopo la decisione della piattaforma di oscurare una conferenza da remoto della San Francisco State University. Il motivo? La presenza di un’ospite molto “particolare”: Leila Khaled, classe 1944, politica palestinese e membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP).
La vicenda
Il seminario era stato programmato per lo scorso 23 settembre, con il titolo Whose Narratives? Gender, Justice and Resistance. Ma le proteste di alcuni settori filo israeliani dell’opinione pubblica americana avrebbero spinto Zoom a oscurare l’incontro, etichettandolo come una violazione della policy della piattaforma. Nonostante abbia abbandonato da tempo la lotta armata, Khaled farebbe infatti ancora parte del FPLP, movimento di ispirazione marxista-leninista che le leggi americane considerano a tutti gli effetti un gruppo terroristico.
La stessa Khaled si è resa in passato protagonista di alcuni atti eclatanti, in particolare di due dirottamenti aerei (entrambi senza vittime), rispettivamente nel 1969 e nel 1970. Una figura decisamente controversa: terrorista per alcuni, paladina della liberazione palestinese (e icona femminista) per altri. La sua storia è penetrata persino nella cultura pop, ispirando film e canzoni.
Cresce il numero dei seminari cancellati
Nei giorni successivi, Zoom ha continuato a oscurare tutti gli eventi delle università americane che vedevano l’attivista palestinese tra i partecipanti; suscitando le ire dei professori, che hanno parlato di censura e attacco alla libertà di espressione. Zoom si è difesa, sostenendo di essersi adeguata alle leggi vigenti nello Stato in cui stava operando. Una posizione anche condivisibile, per un’azienda privata, che non può permettersi di rischiare multe o procedimenti penali.
Più controversa invece la decisione di intervenire sui seminari organizzati da professori e studenti proprio con l’obiettivo di discutere della presunta censura di Zoom, ed eventualmente ottenere che le Università rompessero gli accordi con la piattaforma. In questo caso, nessun ospite controverso a giustificare la cancellazione; e la società, pur appellandosi nuovamente alla violazione della policy, non ha voluto (o saputo) indicare con chiarezza quale regola fosse stata effettivamente infranta.
«Tutti quelli che lavorano ai più alti livelli dell’istruzione in questo momento dipendono da Zoom, non possiamo permettere che una compagnia esterna possa prendere questo genere di decisioni», ha affermato il Professor Andrew Ross, della New York University.
Zoom tra successi e polemiche
Non è la prima volta che Zoom prende decisioni impopolari. Lo scorso giugno aveva fatto discutere l’eliminazione di alcuni incontri virtuali organizzati da gruppi di dissidenti cinesi, in commemorazione della strage di Tienanmen. Anche in questo caso, la compagnia ha ribadito la necessità di attenersi alle decisioni politiche degli Stati; anche quando tali decisioni arrivano da un’autorità “ambigua” come quella cinese.
Sono tempi duri per le aziende che gestiscono il nostro tempo online. Parliamoci chiaro: la pandemia ha portato grossi benefici a Zoom. Nel 2020 i ricavi della società fondata da Eric Yuan sono aumentati del 355%, con una crescita del 25% del valore delle azioni. Nell’epoca del distanziamento sociale, le piattaforme di videoconferenza sono diventate un servizio essenziale per qualsiasi azienda, nonché uno strumento imprescindibile per scuole e università. Ma il successo, si sa, ha i suoi risvolti negativi.
Zoom e la censura: la responsabilità è davvero dei privati?
Zoom sta vivendo le stesse problematiche che da alcuni anni investono tante grandi piattaforme online, come Youtube o i social media Facebook e Twitter. I giganti del web vengono spesso criticati per la loro incapacità di contrastare efficacemente i messaggi d’odio e le fake news che gli utenti mettono quotidianamente in circolazione. Quando invece intervengono, fioccano le accuse di censura e manipolazione politica; come dimostrato i recenti attacchi di Trump contro Twitter. Si arriva allo scenario paradossale in cui ai giganti di Internet viene chiesto di difendere principi democratici sviliti e oltraggiati spesso dagli stessi politici, che pure ne sarebbero i rappresentanti principali.
Si apre quindi un discorso complesso: le aziende legate alla comunicazione online hanno responsabilità di natura politica? Sono tenute a intervenire in difesa dei principi cardine delle nostre democrazie, come la libertà di espressione, oppure si dovrebbero limitare ad applicare le leggi stabilite dal potere pubblico? Possono dotarsi dei termini di servizio che preferiscono, oppure sono obbligate ad adeguarsi alle disposizioni statali?
Le ragioni delle università
La censura di Zoom sui seminari americani si inscrive in questo discorso. Se la piattaforma ha deciso di attenersi alle leggi statunitensi, che considerano Leila Khaled una terrorista, non può stupire allora la decisione di impedirne gli interventi. I docenti potranno comunque ricorrere ad altri competitor per realizzare i propri scopi.
Ma… c’è un ma. Le politiche delle università evidentemente consentivano l’intervento dell’attivista palestinese; quella conferenza era insomma un loro diritto. I giornali statunitensi hanno inoltre riferito di pressioni operate dalle lobby filo israeliane, senza le quali la piattaforma non sarebbe probabilmente neanche intervenuta. Per non parlare poi di tutti quegli incontri cancellati senza apparente motivo, solo perché incentrati sul tema della censura online.
In questo particolare frangente storico, la pandemia ci costringe più che mai a ricorrere a strumenti come Zoom per metterci in contatto, studiare, lavorare o anche semplicemente discutere le nostre idee. Non sempre è possibile impiegare piattaforme alternative: basti pensare alla stessa conferenza di Khaled, oscurata non solo da Zoom, ma anche da Facebook e Youtube, a cui i professori si erano rivolti come ultima spiaggia.
Le piattaforme digitali, travolte dagli scandali e intimorite dalle possibili ripercussioni giuridiche delle proprie scelte, sembrano sempre più restie a ospitare contenuti e idee potenzialmente controversi. Quelle stesse idee di cui invece si nutre, per sua stessa natura, il dibattito accademico, giustamente più libero e spregiudicato di quanto non possa permettersi un’azienda privata. La pandemia ha costretto questi due mondi così diversi a convivere: lo scontro di vedute è inevitabile.
Elena Brizio