Arriva la Fast Fashion della Lidl, t-shirt con maxi logo che campeggia al centro, calzini di spugna che richiamano l’underground della moda skaters ma soprattutto scarpe. Quelle che sarebbe meglio definire sneakers (già oggetto di culto per la generazione Z e Alfa come feticcio dello style urban, nel suo collezionismo smodato e nel deepweb dei giovanissimi).
Le sneakers in questione e linea di abbigliamento annessa sono però quelle targate Lidl, quelle che hanno scatenato file ai noti discount e quel fenomeno di reselling portato alle stelle da un paio di scarpe da ginnastica di 12.99 euro.
Materiale scadente che si racchiude nei colori sociali del noto franchising della “spesa economica”, un prezzo imbattibile e l’emulazione del fashion antiestetico che ha caratterizzato anche le linee di alcuni luxury brand (vedi Gucci o Balenciaga).
Un sold-out low-cost che ha caratterizzato la corsa all’acquisto della Lidl Fan Collection, che dapprima ha riscosso un successo enorme in paesi come Belgio, Finlandia, Francia e Germania per poi incontrare l’apprezzamento del mercato italiano.
Probabilmente il solo rassomigliare di un certo design a brand cult della moda streetwear accoppiato ad un prezzo senza concorrenza potrebbe decretare un successo di vendite, ma non certo un fenomeno mediatico come quello in atto.
Sicuramente ad incidere, come sopra citato, è il fenomeno di riselling. Oggi il mercato del personal style oltre che a logiche di affermazione sociale per particolari gruppi e categorie si basa fortemente con l’approvazione del proprio e personale Guanxi, come verrebbe definito in Cina. Ovvero il concetto che racchiude l’idea della propria personale sfera d’influenza rispetto alla rete social a disposizione. Quindi l’approvazione di un capo cult nel macro-mondo dei social network. Un capo che probabilmente non verrà mai neanche indossato, riconoscendone scientemente il basso valore qualitativo, ma da sfoggiare sui rispettivi profili o da rivendere sul web tramite il suddetto fenomeno, passando dai circa 13 euro iniziali fino a rivendicazioni economiche da centinaia di euro.
A quelle che potrebbero già essere valide motivazioni se ne aggiungono altre, non meno importanti, anzi, per alcuni versi leggi fondamentali del brand marketing. Ovvero la logica (stavolta all’inverso) del brand awareness, perchè se è vero che una marca cerca questa dinamica promozionale per accrescere il propria notorietà, in questo caso c’è la logica inversa di legarsi ironicamente al brand “di tutti i giorni”, minimalismo feroce di una generazione che vive un periodo antitetico a quello della ricerca del luxury brand.
Di fatti, un’altra delle fondamentali regola di campagna marketing è quella del fattore emotivo, destare qualcosa nel potenziale acquirente. Ecco allora che un oggetto di successo, le scarpe Lidl, può tramutarsi in un oggetto cult. Una sorta di simbolo di una normalità assoluta che rappresenta il mondo della spesa economica e che con autoironia rappresenta l’immaginario di una generazione ferma al palo, sia quella che agogna uno streetwear lussuoso nella trap zone sia quella pop in generale.
In passato abbiamo anche visto operazioni da un punto di vista contrario, come il caso Vetements (che in gergo francese è semplicemente “abiti”) un colletivo di designer guidati da Demna Gvasalia. Collezioni da vera haute couture ma che regalano un’identificazione visiva con lo streetwear over size o gipsy. Lontani dalle raffinate maison parigine ma vicine alla ricerca di una certa sciattezza ribelle del mondo moderno e soprattutto nei loro slogan un richiamo sociale contro il consumismo di massa, il denaro padrone o certe istituzioni (raffigurate anche su alcuni loro loghi).
Analogamente, ovvero quando il vestiario apparentemente brutto o scadente acquisisce una connotazione sociale (in questo caso anche politico e musicale) è quello di Vivienne Westwood. Londinese, attivista ma soprattutto il nome dietro la grande casa di moda di lusso oggi ma ben diverso nei suoi primordi. Di fatti, la sua storia si lega inestricabilmente a quella del movimento punk degli anni ’70 e ai Sex Pistols (curando personalmente il look dell’iconica band, il compagno Malcom McLaren era invece il manager del gruppo).
Partendo dal suo primo store Let it rock in 430 Kings Road, proprio nella capitale britannica e prendendo spunto dai vinili di musica rock and roll ma soprattutto dalla moda dei Teddy Boys da inizio al suo percorso. Una moda nata dal riutilizzo di prodotti di scarto (plastica, nylon) presi in discarica e pronta a vestire categorie sociali emarginate (omosessuali, feticisti, sex worker) ridando una connotazione ai “nuovi poveri” nel processo di affermazione sociale. Insomma certo, più connotazione politica per Westwood e per il punk, molto meno per la Lidl che invece si basa su un’affermazione di status dell’esasperazione ironica di un ritorno alla normalità più comune.