L’11 novembre del 1821 nasceva Dostoevskij. Ecco perché dovremmo riscoprirlo in tempi di pandemia
Dostoevskj nasce l’11 novembre del 1821 a Mosca, da padre medico militare e madre figlia di commercianti russi. Autore prolifico, appartiene alla memoria di tutti noi come uno di quegli autori che ha scritto libri talmente lunghi, ma anche talmente belli, che prima o poi vanno letti, almeno una volta nella vita. E bene, forse quel momento è arrivato, forse ce lo ha fornito proprio la pandemia e i momenti di chiusura – quindi di solitudine – ai quali ci costringe. Mi riferisco alle recenti parole di Ezio Mauro, che parla di “Terapia Dostoevskij“:
“Per misurare le radici del Male (senza illudersi di trovare le sue ragioni) bisogna andare un’altra volta a prendere Rodion Romanovich Raskol’nikov al numero 19 di via Grazhdanskaja”, riferendosi a Delitto e Castigo.
Sì, perché lo scrittore russo declina in tutte le sue forme sentimenti come la solitudine e l’alienazione, incarnate dai suoi personaggi, e ci insegna a interrogarci su di esse e a “normalizzarle”. E, ancora, sentiamo adesso più vicini che mai i suoi romanzi, assolutamente psicologici – che varrebbe la pena chiamare psicologie romanzesche – dove ci sono pochi eventi, poche azioni, ma dilatate all’infinito nell’eco che scatenano nelle nostre percezioni, emotive e intellettive. Proprio come i nostri giorni da diversi mesi a questa parte: ridotti a poche azioni, ma assolutamente vitali, connotate da un’aura di incertezza e oscurità.
Un autore contraddittorio, tormentato, che nelle sue pagine racconta innanzitutto sé stesso e il suo disperato attaccamento alla vita, nonostante la sofferenza
Il giovane Dostoevskij studia controvoglia Ingegneria militare, poiché i suoi interessi erano già rivolti alla Letteratura. Suo padre viene assassinato, forse dai suoi stessi contadini, che aveva preso a maltrattare da quando si era abbandonato al vizio del bere: vizio che ritroviamo nell’ubriacone Marmeladov in Delitto e Castigo, che rivela al protagonista di picchiare sua figlia Sonja, e che è ispiratore di uno dei passi più belli del romanzo:
“Capitano a volte incontri con persone a noi assolutamente estranee, per le quali proviamo interesse fin dal primo sguardo, all’improvviso, in maniera inaspettata, prima che una sola parola venga pronunciata.”
La perdita del padre inaugura la stagione epilettica dello scrittore, che continuerà per tutta la sua vita, a un certo punto della quale decide di abbandonare il servizio militare: così, si trova a dover lottare sia contro una salute cagionevole, che contro la povertà. Nel suo primo libro, Povera gente (1846), trova espressione, e dignità, la sofferenza per l’uomo socialmente degradato e incompreso.
Oltre alla vena letteraria, è evidente la vena sociale, filosofica, che anima gli avvenimenti dei suoi personaggi: ad esempio, in più occasioni marca la sua contrarietà alla pena di morte, che tormenta la coscienza del reo Raskol’nikov in Delitto e Castigo. Infatti, l’autore stesso fu condannato alla pena capitale per fucilazione, per aver partecipato a una società segreta con scopi sovversivi. Come per miracolo, lo Zar Nicola I cambiò la pena in lavori forzati a tempo indeterminato, facendolo sapere al povero Dostoevskij quando era già sul patibolo.
L’autore di Delitto e Castigo è contrario anche a quello che ai suoi tempi era il nascente culto del superomismo, che ispirerà Nietzsche, e che sembra giustificare la colpa del giovane Raskol’nikov:
“Gli uomini, per legge di natura, si dividono, in generale, in due categorie: la categoria inferiore (quella degli uomini ordinari), che è, per così dire, composta di materiali che servono unicamente a procreare individui simili a loro, e quella degli uomini veri e propri, che hanno il dono o la capacità di dire nel loro ambiente una parola nuova […] . La seconda categoria è composta di uomini che trasgrediscono la legge, di sovvertitori, o di individui inclini a diventar tali.”
Così, a distanza di quasi due secoli, continuiamo a leggere dei suoi personaggi, ma soprattutto della loro costituzione morale: primo esempio lampante del racconto della crisi dell’uomo contemporaneo, privo di certezze e di punti solidi a cui uniformare il proprio comportamento.
Francesca Santoro