Quest’anno la geopolitica sta vivendo una fase che si delinea in un sali e scendi di tensioni continue, all’interno della quale pare possa, da un momento all’altro ritrovarsi di fronte a una bomba pronta a esplodere e nessun artificiere più reperibile.
Fra le tante, innumerevoli, circostanze, non ultima, la questione cinese.
Dopo i vari tentativi cinesi di andare a modificare lo status quo acquatico all’interno del bacino del Mar Cinese Meridionale, il governo di Manila, le Filippine, decide di segnalare la tal cosa alla Corte dell’Aja, denunciando una violazione bella e buona del diritto internazionale, nella fattispecie la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare del 1982: corre l’anno 2013.
Il contenzioso aperto ha per oggetto delle violazioni territoriali, che per allungamento potremmo definire appropriazione indebita, con conseguenze dirette sulle dinamiche del commercio internazionale, il che dà un’immagine complessa e fin troppo pomposa della situazione, che tuttavia si riduce a una storia fatta d’intrighi e ambizioni imperialiste il cui fondamento risale a niente di meno che delle antiche carte geografiche cinesi e si concretizza nel pattugliamento militare e nella costruzione di isole artificiali in una zona considerata ormai quasi fosse un lago facente parte in tutto e per tutto del territorio statale.
Da qui la domanda, qual è il problema di questa smania di protagonismo? O, se vogliamo, perché il governo di Manila ha deciso di “erigersi a paladino del Diritto del Mare”?
Ebbene, è banale dire che la nostra società trova il suo fondamento nell’economia. Il suo andamento determina lo stato delle cose, in perfetta complementarità con la stabilità politica, è il punto di partenza nell’analisi del funzionamento di un sistema. Il PIL, quell’arcano sistema che non fa altro che misurare l’economia prodotta da uno stato in un anno, è divenuto un parametro di confronto essenziale a delineare e stabilire persino il rilievo internazionale di uno stato, la sua effettiva importanza all’interno del sistema degli Stati. Non dimentichiamo che è stata proprio la crescita economica a determinare il ruolo degli Stati Uniti quale potenza per eccellenza.
Fatta questa premessa, il bacino del Mar Cinese Meridionale, è anche il posto attraverso il quale circolano un totale (approssimativo) di 4.5 trilioni di dollari di merci all’anno, sottoposta alla tariffazione definita dal quadro normativo dell’OMC, alias il sistema di riferimento nell’articolazione del commercio internazionale.
Oltre a questo il bacino sarebbe ricco di risorse naturali, quali gas e petrolio, non ancora sfruttate, sulla base di ciò che si sa (ricordiamo che la Repubblica Popolare Cinese è uno stato a Partito Unico, governato dal Partito Comunista).
Ma il verdetto? La Corte Permanente Arbitrale dell’Aja si è espressa, decretando che “la Cina non ha alcun diritto storico in base al quale rivendicare la sovranità sul 90% delle acque del Mar Cinese Meridionale”, a seguito del quale i rapporti internazionali si sono incrinati più di quanto si credesse negli ultimi mesi e questo in particolare perché la Cina ha declinato l’invito a rivedere le sue posizioni e, anzi, non ha minimamente riconosciuto la sentenza, come premesso dai suoi rappresentanti prima ancora che questa arrivasse.
Inutile ribadire che la reazione degli Stati del sistema internazionale non è sicuramente benigna, in particolare quella dei “vicini” penalizzati, Stati Uniti e UE, il che inizia a delineare, in una situazione di altissima tensione, un nuovo equilibrio internazionale, pieno di carica esplosiva che conta le più grandi potenze al mondo.
Una storia per nulla nuova, una storia di ambizioni coloniali e ultimatum.
Una bomba pronta ad esplodere della quale dimensione, la tigre asiatica, non si rende minimamente conto.
Di Ilaria Piromalli