Distanti dal mondo come lo siamo oggi, vicini come non avremmo mai potuto esserlo prima. Fernando Pessoa, poeta e artista, lo sapeva bene. E lo aveva scelto liberamente.
A soli diciassette anni abbandonò la casa della madre e della nonna per seguire la sua ‘’vera natura’’: quella di un uomo solitario, che ha bisogno di isolarsi dal mondo.
Fernando Pessoa era instabile, nevrotico, aveva un bisogno disperato di stare lontano dal mondo e nella sua famiglia scorreva il sangue della pazzia. “So cosa pensare di una dottrina filosofica’’, scriveva nel 1919, ‘’o di un problema letterario. Ma non ho mai avuto un’opinione stabile su uno qualsiasi dei miei amici, su una qualsiasi forma di mia attività esteriore.’’ Stare distanti dal mondo, per Fernando, è sano. Stare nel mondo, invece, lo porta ai limiti della follia. Eppure è costretto dalle circostanze sociali a fare anche questo.
Un forte bisogno di solitudine
“Sono sempre più solo, più abbandonato. A poco a poco si rompono tutti i legami. A breve resterò solo.’’ Così racconta Fernando Pessoa in un manoscritto del 1914. Erano passati ormai alcuni anni da che aveva abbandonato la casa materna volontariamente. Il suo stato psichico, sostiene, è quasi un corrispettivo del genere letterario del mistero e dell’orrore. Nelle sue pagine avvertiamo sempre una sorta di enfasi narcisistica, un certo istrionismo e altrettanto – e questa è una parola sua – egoismo.
Così lascia scritto Pessoa nel Libro dell’inquietudine.
Una delle mie preoccupazioni costanti è capire com’è che esista altra gente, com’è che esistano anime che non sono la mia anima, coscienze estranee alla mia coscienza; la quale, proprio perché è coscienza, mi sembra essere l’unica possibile.
La testimonianza di un uomo distante dal mondo, che in qualche modo riesce a sopravvivere nutrendosi solo di se stesso, vivendo in quella realtà che è in grado di creare con la sua fantasia – che per fare tutto questo, deve essere immensamente grande.
La paura di esser pazzo
Pessoa trascorse i primi anni della sua infanzia con i genitori e la nonna paterna, Dionìsia, malata di mente. Quando il padre morì di tubercolosi poco dopo aver messo incinta la madre di Fernando, in casa l’instabilità crebbe.
Le condizioni della nonna Dionìsia si aggravarono. Il fratellino di Fernando, Jorge, nacque gracile e malaticcio. Su di lui si concentrarono tutte le attenzioni della madre, che faticava a gestire la situazione. Poi Jorge morì e la madre di Pessoa cadde in una breve depressione, fino a quando, trovato un altro uomo, riuscì a costruirsi un’altra vita.
Una delle mie complicazioni mentali- scrive Pessoa a soli diciassette anni –è la paura della pazzia. La quale, in sé, è già pazzia.
Una pazzia che, come si legge facilmente tra le righe, contribuì ad alimentare l’immaginazione del Pessoa uomo e poeta. ‘’Ebbi sempre, da bambino, la necessità di aumentare il mondo con personalità fittizie, sogni miei rigorosamente costruiti, visionati con chiarezza fotografica, capiti fin dentro le loro anime. Non avevo più di cinque anni. Io e la mia famiglia vivevamo distanti dal mondo, io ero un bimbo isolato e non desideroso se non di stare così. Chiare e visibili nel mio sogno costante, erano realtà esattamente umane per me.’’
Essere distanti dal mondo
Distanti dal mondo e usare il proprio estro per immaginarlo: questo ci insegna Fernando Pessoa. La stessa ragione della sua poesia, come egli scrive non è altro che racchiusa nella frase seguente. “Ho scoperto che la lettura è una forma servile di sognare. Se ho da sognare, perché non sognare i miei propri sogni?”.
Igor Sibaldi diceva che il reale non è necessariamente il visibile. Nessuna frase è forse più indicata per Fernando Pessoa: distanti dal mondo, possiamo comunque sognarlo, immaginarlo, vederlo. E’ la parola di un poeta che trascorse la vita con un bisogno matto di solitudine. Un bisogno che però, molto spesso, non poteva assecondare.
Noemi Eva Maria Filoni