Il governo del Bangladesh ha approvato un emendamento che introduce la pena di morte per il reato di stupro. La decisione è arrivata in seguito alle proteste che hanno travolto il Paese dopo l’ennesimo caso di aggressione sessuale.
In Bangladesh il reato di stupro potrà essere punito con la morte. Questa la decisione del governo in risposta alle sollecitazioni della società civile, che da settimane chiede un inasprimento delle pene, in seguito ad alcune recenti aggressioni. Il decreto, approvato il 12 ottobre dal gabinetto della prima ministra Sheikh Hasina, andrà a modificare la legge per la Prevenzione della Repressione di Donne e Bambini. Fino ad oggi, il massimo della pena previsto per le violenze sessuali in Bangladesh era l’ergastolo.
Le proteste, che hanno visto l’ampia partecipazione dei gruppi studenteschi, si erano particolarmente inasprite la scorsa settimana, provocando scontri nella capitale Dacca e nelle principali città del Paese. A scatenare l’ira dei manifestanti è stata la diffusione in rete di un video che ritraeva una violenza sessuale di gruppo. Gli aggressori avevano girato il filmato con l’intento di ricattare la vittima, una donna di 37 anni, già abusata in passato. Al rifiuto della donna di versare il denaro richiesto, i suoi aguzzini (ad oggi sotto arresto) hanno reagito con pubblicazione del filmato.
I numeri delle violenze sessuali in Bangladesh
I dimostranti sono scesi in piazza per denunciare l’inefficienza della giustizia nel far fronte ai reati di natura sessuale. Stando ai dati forniti dalla Ong Ain o Salish Kendra (ASK), sarebbero 975 le violenze sessuali in Bangladesh denunciate tra gennaio e settembre, di cui una su cinque ad opera di gruppi. Secondo gli esperti, si tratterebbe di una porzione esigua rispetto al numero reale delle aggressioni, la maggior parte delle quali non verrebbe riportata alle autorità.
La reticenza alla denuncia si spiega facilmente alla luce dello stigma che colpisce le vittime di stupro in Bangladesh. Molte donne sostengono di essersi scontrate con l’incredulità degli agenti di polizia, che avrebbero cercato di dissuaderle dal loro intento, umiliandole e facendo insinuazioni sulla loro vita sessuale. Nel 2018 l’Alta Corte del Bangladesh ha riconosciuto la scorrettezza del comportamento delle forze di polizia, enunciando delle linee guida a cui gli agenti avrebbero dovuto attenersi nella gestione dei casi di stupro. A distanza di due anni, gli attivisti denunciano l’inutilità di questi interventi, che non avrebbero influito sugli atteggiamenti delle forze dell’ordine, soprattutto in mancanza di sistemi di controllo.
Il processo alla donna
Ma sono anche altri i fattori che spingerebbero le vittime al silenzio. Il codice penale del Paese autorizza infatti gli avvocati difensori a mettere in discussione la moralità della vittima di stupro. Non è raro così che il procedimento contro lo stupratore si trasformi in un vero e proprio processo alla donna, alla sua vita privata e ai suoi comportamenti, nel tentativo di addossarle la responsabilità dell’aggressione.
A questo si aggiunge l’assenza in Bangladesh di una legge per la protezione dei testimoni e delle vittime, che, presentandosi a processo, si espongono così a ogni tipo di ritorsioni e violenze da parte degli accusati.
Il codice penale del Paese inoltre fatica a riconoscere e tutelare le vittime di abusi interni al matrimonio. Se la vittima è infatti la moglie dello stupratore, la pena per l’imputato si riduce a due anni di carcere, o al solo al pagamento di un’ammenda.
In questo sconfortante scenario, meno dell’1% dei processi per stupro si conclude con una condanna per l’imputato. Amnesty International riferisce infatti che, tra il 2001 e il 2020, solo il 3,56% dei casi denunciati sono arrivati a processo, e solo lo 0,37% ha prodotto una condanna.
La pena di morte per il reato di stupro
Il governo ha quindi deciso di accogliere le richieste della piazza, introducendo la pena capitale (che in Bangladesh avviene tramite impiccagione) per il reato di stupro. Una soluzione drastica, finalizzata a calmare gli animi dei cittadini. Tuttavia non è chiaro come l’inasprimento della pena possa risolvere i problemi fin qui esposti. Le donne hanno paura di denunciare; quando denunciano, non vengono ascoltate; e anche quando vengono ascoltate, quasi mai ottengono giustizia in tribunale.
La pena di morte non può certo risolvere la crudeltà e l’inefficacia di una legislazione sulla violenza sessuale che andrebbe ampiamente riformata; né sanare un problema che ha profonde radici culturali, ben piantate in un sistema che fatica a riconoscere alla donna la dignità che le spetta. Sappiamo bene quanto sia complicato combattere la cultura dello stupro; ne abbiamo esempi concreti anche in Occidente. I cambiamenti culturali sono lenti e faticosi, passano attraverso le scuole e la società civile; impiegano magari anni per attecchire, e difficilmente possono sedare una piazza in rivolta, né portare voti. Ma sono gli unici che contano.
Perché in un Paese in cui neanche l’1% degli imputati ottiene una condanna, e in cui innumerevoli altri aggressori non arrivano neanche al processo, poco cambia se la pena sia il carcere a vita o penzolare dalla forca. A meno di non voler ammettere che lo scopo sia un altro: compiacere la ferocia della folla, senza promuovere un vero cambiamento sociale.
Elena Brizio