Le factory school, o scuole di assimilazione, privano i popoli indigeni della loro identità e minano la diversità umana.
Cos’è una factory school
Historia testis temporum et magistra vitae, si dice, ma non è sempre così. Infatti in alcuni casi la storia si ripete, e porta con sé un bagaglio di orrori, racconti di prevaricazione e infanzie rubate.
È il caso delle factory school, scuole per bambini delle comunità tribali. Si tratta di istituti che promuovono un sistema educativo basato sull’assimilazione e non sull’integrazione. Queste fucine degli adulti di domani privano i bambini delle loro radici storiche e culturali per conformarli alla società dominante.
Ancora una volta, è l’ONG londinese Survival International a lanciare l’allarme e denunciare questo sopruso ai danni delle minoranze indigene.
Le factory school odierne ricordano molto quelle sorte in Canada tra il 1800 e il 1900. Erano scuole residenziali volte a “civilizzare” i bambini indigeni, “riprogrammandoli”. Nel corso del XXI, i sopravvissuti di questi istituti hanno iniziato a raccontare le loro esperienze: storie raccapriccianti di abusi e violenze.
Nel 2008, l’allora Primo Ministro del Canada, Stephen Harper offrì pubbliche scuse alle vittime di quel modello scolastico. Contestualmente venne istituita la Commissione Verità e Riconciliazione sulle scuole residenziali indiane per fare luce sui fatti accaduti.
Nonostante l’aperta condanna, questi istituti sono ampiamente diffusi in Asia, Africa e America del Sud. E, ancora oggi, dietro la retorica manipolatrice dell’educazione libera aperta a tutti, nascondono un vero e proprio genocidio culturale.
Alienazione e violenze per i bambini indigeni
I bambini, allontanati dalle loro famiglie, non più in contatto con la loro terra e la loro realtà, imparano a disprezzare una cultura millenaria. Quel loro sapere, tramandato di generazione in generazione, gli viene descritto come primitivo, retrogrado, inferiore alla cultura mainstream con cui vengono indottrinati.
A oltre 2 milioni di bambini nel mondo, secondo Surviva International, viene oggi proibito parlare la loro lingua o ricordare i miti e le canzoni rituali il cui ritmo ha scandito la storia del loro popolo dall’inizio dei tempi.
L’educazione promossa nelle factory school mina alla base l’autodeterminazione dei popoli indigeni e la loro memoria collettiva. Questo tipo di scolarizzazione mette a repentaglio la sopravvivenza di un patrimonio di inestimabile valore: rischiamo di perdere la saggezza e le pratiche ancestrali di genti capaci di vivere in totale armonia con la natura, senza sfruttarla.
Nelle factory school, oltre agli abusi psicologici di stampo marcatamente razzista, i bambini sono costretti a subire altre serie costrizioni: malnutrizione, abusi fisici, violenze sessuali. Traumi che lasciano cicatrici che non si rimarginano, e da cui è difficile recuperarsi. Infatti, tra i numerosi decessi che si registrano in queste scuole, molti sono suicidi (Survival International).
Il problema si aggrava ulteriormente quando, terminato il percorso di studi, i giovani ritornano al loro villaggio, a una comunità in cui non si riconoscono e che hanno imparato a disprezzare. Non sono più in grado di vivere in armonia con la natura, come le loro famiglie. Tutto ciò che hanno imparato è seguire la dinamica del profitto. Soldatini pronti a marciare nelle fila del capitalismo. È il modello occidentale che si impone, un retaggio del colonialismo.
“L’istruzione è lo strumento più potente per la trasformazione sociale”
Le factory school costituiscono una flagrante violazione dei Diritti dei Popoli Indigeni. Tuttavia, ancora si investe su questo sistema educativo basato sulla prevaricazione e l’omologazione dell’individuo. Le ragioni sono essenzialmente tre, come spiega Survival International.
Le grandi multinazionali, soprattutto le industrie estrattive, mosse dalla religione del profitto, ricorrono all’indottrinamento dei popoli indigeni per spezzare il legame con la terra, con un duplice risultato. Da un lato, mettono a tacere i movimenti indigeni a tutela dell’ambiente, sgomberando la strada verso lo sfruttamento indisturbato delle risorse. Dall’altro, sfruttano la manodopera indigena, creando squadre di lavoratori riconoscenti e obbedienti.
Anche le religioni sono complici di questo massacro culturale. In nome di un processo missionario educativo, cristianesimo, induismo e islamismo usano l’istruzione come mezzo per convertire gli indigeni, tacciando come primitiva la loro tradizione spirituale.
Infine, i governi guardano alla scolarizzazione come a un mezzo per reprimere, prima ancora che nasca, qualsiasi aspirazione indipendentista, instillando il patriottismo negli studenti.
KISS, un esempio di factory school in India
“Trasformiamo la passività in attivi… convertiamo i consumatori fiscali in contribuenti”, dice il video promozionale del KISS.
Il Kalinga Institute of Social Sciences, nella capitale di Orissa, è una scuola residenziale per bambini indigeni. Ospita e istruisce oltre ventisettesima giovani Adivasi, appartenenti a diverse tribù indiane.
L’istituto è sovvenzionato da alcune delle principali industrie minerarie, come Adani, i cui interessi minacciano le terre delle popolazioni Adivasi. Il fondatore della scuola, Achyuta Samanta, ha affermato in una presentazione che le tribù indigene “non sanno nulla”. La scuola promuove quel sistema educativo di assimilazione che tanto somiglia a quello duramente condannato in Canada.
I leaders Adivasi, gli attivisti e gli antropologi hanno espresso la loro opposizione a scuole come questa che “stanno derubando i bambini indigeni della loro identità insegnando loro a provare vergogna per chi sono e per la loro provenienza”.
La Dichiarazione delle Nazioni Unite
L’Articolo 14 della Dichiarazione delle Nazioni Unite riconosce ai popoli indigeni “il diritto a istituire e controllare i loro propri sistemi educativi impartendo l’istruzione nelle loro lingue, in una maniera consona con i propri metodi culturali di insegnamento e di apprendimento”.
Le factory school sono una violazione dei diritti dei bambini e dei popolo indigeni. L’istruzione invece deve essere libera, decolonizzata e deve tutelare la diversità umana.
Camilla Aldini