Zaia, Salvini e la Lega: è forse tempo che la bolla del consenso social della nuova Lega si sgonfi. Zaia potrebbe tentare lo strappo, ma è troppo avveduto e prudente per dare la spallata. Meglio aspettare che Salvini, come ha fatto con il Governo, si faccia fuori da solo.
C’è la destra dei pensionati o dei liberi professionisti over 50, che trovano in Berlusconi un leader carismatico e una figura ancora inspiegabilmente credibile, secondo l’antico adagio de “l’uomo che si è fatto da solo”. C’è la destra di Fratelli d’Italia, quella degli arrabbiati e degli pseudocristiani, che si trincerano dietro le frasi del Vangelo per giustificare xenofobia e ricerca ossessiva di un capro espiatorio. E poi c’è la Lega: anche qui Vangelo come grimaldello per la xenofobia di Stato. Di fatto, quindi, cosa distingue la Lega da Fratelli d’Italia?
La Lega come brutta copia di FdI
Se prima la Lega poteva vantare delle pretese macroregionali, adesso si trova a un bivio: il “Prima il Nord” si è tramutato in “Prima gli italiani. E’ diventata praticamente la brutta copia di Fratelli d’Italia. Entrambi i partiti intercettano i giovani, gli operai, i pensionati e gli imprenditori da Nord a Sud, a suon di nazionalismo antieuropeo, frasi fatte sul sostegno alla natalità e difesa dell’identità cristiana nel presunto processo di islamizzazione. Cosa distingue, quindi, un elettore di Giorgia Meloni da un elettore di Salvini? Niente.
La leadership
Con la differenza che, almeno in apparenza, Giorgia Meloni è la leader indiscussa del suo partito e dei suoi elettori, mentre Salvini è il leader indiscusso solo per una parte di elettori leghisti. Navigando in acque nazionali, Salvini ha puntato alla quantità, lasciando perdere la coerenza della proposta. Ha dato per acquisiti i voti del Nord, pensando che dai traguardi regionali in poi si potesse solamente migliorare. E invece no: nel vuoto che ha lasciato la Lega in Veneto, in Piemonte e in Lombardia, si sta facendo spazio una nuova Lega, che risponde al regionalismo di Luca Zaia.
Salvini contro Zaia
Dalla sua, Zaia ha delle dichiarazioni infelici, il modo di esprimersi rustico, al limite del burbero, ma il pragmatismo della Lega dei tempi d’oro. Il suo gold ticket è la gestione della pandemia che, con tutti i se e i ma, ha reso la Regione Veneto un modello in Italia e nel mondo. Dalla sua, invece, Salvini cosa ha? Un milione e trecentomila follower su Twitter, quattro milioni di Mi Piace su Facebook e due milioni su Instagram. Ha poi i video su Tik Tok, un ministero naufragato, un tentativo di governo mal riuscito, ma, di fatto un quarto degli italiani che accorderebbero la preferenza al suo partito, se si andasse a votare domani.
Un dissenso crescente
I mal di pancia, però, in seno al partito di Salvini, non sono pochi. Qualche giorno fa, il Fatto Quotidiano ha pubblicato un’intervista realizzata a Massimo Sensini, presidente di Federsanità veneta e dimissionario consigliere comunale leghista. Le sue parole non hanno bisogno di grande commento, visto che afferma di non riconoscersi più in questa squadra. Non vede di buon occhio la Lega che, da partito locale, si getta sulla strada del nazionalismo patriottico e che fa dell’immigrazione la sua battaglia principale. A dirla tutta, infatti, già nella Lega di Bossi l’immigrazione era un problema di secondo piano, data dalla mala gestio del governo centrale e da Roma Ladrona. Non che Bossi o Calderoli si siano mai risparmiati i commenti xenofobi, ma la lotta principale rimaneva quella dell’autonomia fiscale e amministrativa.
Un problema di soldi?
I numeri di Salvini, però, spaventano anche la Lega più purista. Sebbene infatti qualcuno continui a dire che i consensi sui social abbiano lo stesso valore dei soldi a Monopoli, bisogna tenere conto che la traduzione di un certo numero di Mi piace in voti elettorali è innegabile. Matteo Salvini, però, a livello di programmi e obiettivi è molto più vicino a Giorgia Meloni che a Luca Zaia. A finanziare la Lega, però, sono in maggioranza elettori e contribuenti del Nord, mentre da Sud arrivano i voti, ma non i soldi.
Autonomia zero
La strada autonomista è stata abbandonata da tempo, nonostante Salvini sia stato per più di un anno Ministro dell’Interno e abbia avuto tutti gli strumenti per rispondere alla richiesta federalista dei suoi governatori. L’unica spinta autonomista che si ricordi a livello nazionale rientra nelle azioni intraprese da Massimo D’Alema e Giuliano Amato, con la riforma del Titolo V della Costituzione. Salvini? Nulla di fatto. Anzi, se possibile, durante il suo Ministero ha commesso uno dei peccati più ignobili per gli elettori leghisti vecchio stampo: essere al Governo mentre si approvava il reddito di cittadinanza.
La partita finale
Sembra che i nodi, quindi, stiano venendo al pettine. Zaia, da una parte, è un amministratore che, seppur controverso, ha fatto anche il politico, come Ministro delle Politiche Agricole nel governo Berlusconi IV. Salvini, invece, ha fatto il politico e basta. Ha comunicato, ha negoziato, ha conquistato voti da Nord a Sud, ma quando si è trattato di gestire la cosa pubblica si è dato alla fuga, con un blando tentativo di rovesciare il Governo che, invece, ha rovesciato sè stesso.
Adesso la Liga Veneta di Zaia potrebbe battere i pugni sul tavolo. Ma Zaia è un leghista vecchio stampo, di quelli che conoscono le dinamiche di partito. E’ prudente, è pragmatico, ma, soprattutto, è paziente. Se ne sta lì tranquillo e recita la parte dell’amministratore che non ha tempo per queste stupidate della leadership e dei sondaggi, dice che in Veneto si lavora e lascia intendere che, forse, basta aspettare che Salvini si faccia politicamente fuori da solo, così come è successo lo scorso anno.
Elisa Ghidini