Una vita violenta e furente. Questo sembra riassumere lo stereotipo che si ha, in genere, degli artisti. Tuttavia non si può giustificare così il femminicidio e la violenza che scaturisce dall’ossessivo possesso dell’altro. E non si può giustificare così neanche Saul Fletcher, perché non c’è assonanza fra femminicidio e arte.
Nella notte fra il 22 e il 23 luglio, l’artista Saul Fletcher ha ucciso a pugnalate la moglie Rebeccah Blum, nota gallerista e curatrice d’arte, per poi avvertire la figlia del gesto compiuto e togliersi la vita. A seguito di ciò, è arrivata da Palazzo Grassi la decisione di rimuovere l’opera di Saul Fletcher “Don’t Let The Darkess Eat You Up” (Non lasciarti divorare dall’oscurità) dalla mostra collettiva «Untitled 2020 – Tre sguardi sull’arte di oggi» a Punta della Dogana, nella Fondazione Pinault.
La decisione di rimuovere l’opera è un gesto di cordoglio sia per Rebeccah Blum, sia per tutte le donne vittime di femminicidio. E’ anche un modo per evidenziare come ci sia un’incompatibilità di fondo fra femminicidio e arte.
Questo il messaggio sul sito dell’esposizione:
“Per rispetto alla memoria di Rebeccah Blum assassinata il 22 luglio 2020 da Saul Fletcher, suicidatosi in seguito, e per solidarietà con le donne vittime di violenza, Palazzo Grassi-Punta della Dogana ha deciso di rimuovere l’opera di quest’ultimo dalla mostra Untitled, 2020. Tre prospettive sull’arte del presente”.
L’opera, però, non sarà completamente sottoposta a una damnatio memoriae, ma sarà ancora presente del catalogo della mostra. Questo, dalla Fondazione, è per ribadire quanto il gesto non sia di censura, ma di cordoglio nei confronti di Rebecca, vittima del marito violento. E anche per confermare il contrasto valoriale fra femminicidio e arte.
Femminicidio e arte: la rimozione è censura?
Il mondo dell’arte si è diviso in due. Nomi come Massimo Cacciari o Vittorio Sgarbi si sono dichiarati contrari alla rimozione, sostenendo che l’opera è un ricordo dell’accaduto e anche e soprattutto di Rebeccah Blum.
Sgarbi, a tal proposito:
“Se un artista uccide la compagna, meglio che rimanga un ricordo: una testimonianza in negativo è meglio un niente. L’opera parla anche in memoria della Blum e sollecita un pensiero negativo per l’artista.”
Di opinione contraria la gallerista Alison Jacques, dell’omonima galleria londinese:
“Non va bene continuare a promuovere, archiviare o mostrare il lavoro di una persona che ha commesso violenza domestica e omicidio.”
Il femminicidio di Rebeccah Blum non è che l’ennesimo derivato tossico della cultura patriarcale che vede la donna amata come proprietà – da portare con sé anche nella morte. È impossibile giustificare un omicidio del genere, come non si può giustificare un accordo fra femminicidio e arte.
Il gesto della Fondazione permette di dare rilevanza a quello che altrimenti sarebbe passato in secondo piano: l’omicidio per mano del marito di una gallerista e curatrice, in quanto donna e moglie.
Non è un atto di censura, dato che in realtà è stata proprio la rimozione dell’opera a far parlare tanto dell’evento e a farlo uscire dai giri puramente artistici. È così che questo femminicidio è entrato nel dibattito pubblico.
Il gesto della fondazione è una condanna alla violenza sulle donne, soprattutto vista l’importanza che questo problema ha in Italia.
L’opera potrà poi, eventualmente e se ritenuto opportuno, essere allestita con una presentazione adatta e con un’appropriata contestualizzazione in un’altra mostra. Questo solo in base a come il tempo giudicherà Saul Fletcher.
Ciò che importa è che la Fondazione Pinault è riuscita a dare un impatto maggiore nella lotta contro la violenza sulle donne e al femminicidio, rispetto a varie mostre o comunicati ufficiali. Ha fatto qualcosa di concreto che ha creato scalpore e che, perciò, verrà ricordato. Perché fra femminicidio e arte non ci sia più alcun accostamento.
Giulia Terralavoro