L’alterizzazione è l’atto di creazione di un altro identificato appositamente come diverso da noi e, per questo, ostracizzato.
Othering: cos’è l’alterizzazione
A usare questo termine è la scrittrice premio Nobel Toni Morrison, nel suo libro L’origine degli altri. La creazione dell’altro è una tematica ampiamente studiata in ambito sociologico e Morrison, non solo si interroga sui meccanismi alla sua base, ma la rende linguisticamente riconoscibile con il sostantivo “alterizzazione” (othering).
La sua indagine sulla creazione dell’altro si concentra principalmente sulla questione razziale e la percezione del nero e del migrante nella società occidentale. Oggigiorno, infatti, il migrante rappresenta l’altro per eccellenza: arriva da luoghi lontani, ha un diverso colore della pelle, viene relegato nel basso della scala sociale. Queste caratteristiche rendono il migrante riconoscibile, additabile: in poche parole, facile da individuare e ostracizzare.
L’altro, infatti, una volta configurato è necessario che sia anche messo a margine della collettività “normale”: solo così l’individuo che si inscrive in questa norma comune trova la sua definizione; la sua identità.
Secondo Toni Morrison alla base della nostra necessità di creazione dell’altro ci sarebbe un bisogno non solo psicologico, ma sociale. A darle ragione troviamo il sociologo Zygmunt Bauman che, in Stranieri alle porte, sviscera anche lui tale tematica.
Perché creiamo l’altro
La paura di essere stigmatizzati come non conformi, ufficialmente propagata e coltivata nella società disciplinare, è stata sostituita, nella società della prestazione dalla paura di rivelarsi inadeguati. Gli individui formalmente emancipati si ritrovano sostanzialmente incapaci di affrontare le prove e i tormenti di una vita completamente individualizzata.
(Z. Bauman, Stranieri alle porte)
In una società come la nostra, cosiddetta della prestazione (Byung-Chul Han), in cui l’individuo ha una valenza in quanto produttore e consumatore, in cui si promuove l’individualizzazione, il rischio dell’anonimato e di una crisi identitaria (e depressiva) derivante da esso è dietro l’angolo. In siffatta società, fondata e sorretta da leggi di mercato, classificarsi (o peggio: essere classificati) come individui deboli, inutili, ci relega tra quei reietti posti all’ultimo gradino della scala sociale; veniamo in questo modo messi di fronte ai nostri limiti, la nostra inutilità. Ecco che il bisogno di l’alterizzazione, di creare l’altro, si fa necessario.
Per gli esclusi che sospettano di essere ormai relegati tra gli ultimi, scoprire che sotto di loro c’è qualcun altro è una sorta di evento salvifico, che restituisce loro dignità umana e salva quel poco che rimane della loro autostima
(Z. Bauman, Stranieri alle porte)
Identificare un altro diverso da noi, che sia l’immigrato, l’omosessuale, il trans, il malato, o il vicino di casa introverso, ci permette di allontanare il disprezzo di sé insito in ognuno di noi e rovesciarlo sull’elemento estraneo, individuato appositamente come tale.
Il ruolo del gruppo: la valorazione dell’identità
Troviamo, dunque, anzi costruiamo la nostra identità tramite la scissione “noi-altro”, tramite negazione: io non sono (come) lui. Ma la scissione non basta: a questa deve seguire la partecipazione in un gruppo che condivida valori considerati, ragionevolmente o meno, la “norma”. Solo così, con il beneplacito comunitario, con l’accettazione da parte della collettività, la nostra identità acquisisce valore e si realizza.
La comunità, il gruppo, ci permette di identificarci in un ideale che sentiamo come valevole, giusto, poiché accettato dalla maggioranza. In questa maniera il nostro io ha un peso, perché riconosciuto e accolto dalla moltitudine eletta a norma: non siamo più ingranaggi individuali e anonimi, ma membri di un meccanismo più grande.
Paradossalmente l’identità dell’individuo si forma solo con l’affermazione di gruppo; viene, dunque, a mancare l’elemento individuale e originale che contraddistingue il nostro io da quello altrui: diventiamo collettività, siamo assorbiti da essa e ne condividiamo i tratti caratteristici. Si crea, in questo modo, uno squilibrio tra la sfera personale e quella comune, propendendo per una sorta di spersonalizzazione. Si tratta, inoltre, di una collettività fittizia e costruita su basi calcolate e accettate come normali che, per reggersi, ha bisogno dell’esclusione degli elementi estranei; ha bisogno di difendersi da ciò che non conosce, ergendosi così sulle basi poco solide della paura.
Il negro artificiale
L’accettazione sociale diventa, quindi, base fondante dell’identità individuale che deve, però, accettare le norme del gruppo, abbandonando la possibilità di una morale che sia eticamente giusta o, comunque, costruita su scelte autonome e coscienti.
Per spiegare questo concetto Toni Morrison fa riferimento a un racconto di Flannery O’Connor, datato 1955, dal titolo Il negro artificiale. In questo racconto è espressa l’azione comunitaria, rappresentata da un anziano -povero- sul singolo individuo, incarnato nella figura di un bambino, un foglio bianco sul quale poter scrivere i dettami dell’alterizzazione. Così, l’uomo istruisce il bambino sulla figura del diverso, identificata nel nero: gli insegna a riconoscerlo, ad averne paura, a evitarlo. Solo in questo modo il bambino acquisirà uno status rispettabile.
Questo meccanismo di separazione permette non solo, come abbiamo detto, di autodefinirci, ma l’appoggio del gruppo, della tribù, ci fa da scudo da accuse morali come l’ingiustizia dell’ostracismo del diverso, con la scusante della pratica comune, del “fanno tutti così”. Ci deresponsabilizza come individui perché ci fornisce una risposta collettiva. Poco importa se moralmente deprecabile.
Schiavi della paura
Per dirla nella terminologia del grande filosofo russo Bachtin, tutti i poteri terreni traggono alimento e forza dalla rielaborazione della “paura cosmica” (innata ed endemica negli esseri umani) in una sua variante costruita e artificiale, “ufficiale”.
(Z. Bauman)
La creazione dell’altro è un qualcosa che non avviene sempre in modo volontario e cosciente da parte della massa e Bauman ci mette in guardia a tal proposito. Ad incoraggiarla e a trarne vantaggio, infatti, ci sono una classe dirigente e un assetto economico che prosperano sulle nostre paure.
Quando non si riesce a far fronte al malcontento di una popolazione che sente il peso dell’incertezza derivante, ad esempio, dalla mancanza di lavoro, di prospettive, di garanzie, l’altro diventa la valvola di sfogo verso cui incanalare paure potenzialmente sovversive.
L’esempio di alterizzazione più calzante nei giorni nostri, come accennato ad inizio articolo, è la figura dell’immigrato.
Come creare l’altro: la chimera della sicurezza
Per individuare l’altro prima lo si spersonalizza, così da allontanare ogni tentativo di empatia (basti pensare a come vengono percepite le morti in mare, complice la fredda statistica che trasforma persone in numeri da elencare); poi si passa alla disumanizzazione. Si rimarca, ad esempio, sulla nazionalità quando ci sono episodi di cronaca nera, si crea un clima di paura e di ostilità; si fanno continui richiami alla sicurezza nazionale, alla sicurezza del singolo cittadino. Questo modus operandi spiana la via al nazionalismo e ai suoi sostenitori.
Loro, gli estranei, possono e devono essere incolpati per tutto il malcontento e il senso di insicurezza e di disorientamento che tanti di noi avvertono dopo questi quarant’anni, in cui la vita umana ha subito i più repentini e profondi sconvolgimenti che la storia ricordi
(E. Hobsbawm)
Questo meccanismo di difesa da un lato, e valorazione dell’identità dall’altro, non riguarda solo la figura del migrante. Esso può essere trasposto su qualsiasi altra minoranza, o presunta tale, anche ad un livello “tribale” minore come può esserlo, ad esempio, un insieme di persone in un quartiere, un gruppo di ragazzi a scuola e via dicendo.
Subire l’alterizzazione: umiliazione e doppia assenza
E sull’altro, questa esclusione, che effetti ha? Bauman individua tre differenti risposte che possono nascere nell’individuo escluso dalla collettività.
Una prima risposta di chi subisce l’alterizzazione è l’umiliazione: essere esclusi causa un dolore e una vergogna tali da far maturare il disprezzo di sé, che può sfociare in vera e propria depressione. Nella situazione del migrante, che lascia la sua comunità per entrare in contatto con un’altra, la ferita è maggiore e più profonda. Si viene infatti ad innescare il meccanismo della cosiddetta doppia assenza di cui parla il sociologo Abdelmalek Sayad: chi ha lasciato la propria casa per cercare una possibilità di sopravvivenza altrove, crea un vuoto nella società che lascia e dentro di sé. Questo vuoto, però, non viene colmato dall’ingresso nella nuova società in cui è -sì- incorporato ma, al tempo stesso, escluso poiché additato come nemico.
Quando mi hanno definita diversa, o altra la mia vita ha preso un corso che non mi aspettavo e che non volevo. Quel cambiamento iniziò 20 anni fa. Sono ancora diversa, nel mio nuovo Paese, l’Italia, anche se non in modo così drammatico e con nessuna delle conseguenze pericolose che ho subito negli anni ’90. E’ la cosa più naturale del mondo essere differenti, e direi anche la più benvenuta, non solo per l’umanità ma per l’universo nel suo complesso.
(Azra Nuhefendić)
Altre reazioni
Una seconda reazione, apparentemente opposta alla prima, vuole che l’escluso percepisca lo stigma come un’offesa immeritata alla sua persona, un affronto immotivato che necessita rimedio; questo lo spinge a cercare una convalida della sua opinione in un gruppo differente, che annulli il giudizio della “società più ampia”.
La terza reazione è una via di mezzo tra le due precedenti: in questo caso l’escluso non si sente toccato da questo ostracismo, considerandosi un essere umano normale e vedendo -invece- la devianza nella collettività. In apparenza questa terza risposta potrebbe sembrare quella di colui che, estraneo a certe dinamiche sociali, è in grado di autodeterminare il proprio io, senza l’approvazione di terzi. In realtà, ci tiene a ricordare Bauman, “l’essere convinti, per essere convincente, richiede un’affermazione di gruppo che non tutti i gruppi sono in grado di pronunciare con successo (…) chi segue lo schema di questa terza reazione è alla febbrile ricerca di un gruppo”.
Qual è la soluzione?
Le risorse di cui disponiamo per entrare in contatto in modo benevolo con gli altri, sono poche ma potenti: il linguaggio, l’immagine, l’esperienza
(T. Morrison, L’origine degli altri)
Sia Bauman che Morrison sono concordi nella soluzione a questa situazione divisiva, propendendo entrambi per la comprensione e il dialogo.
Con l’avanzare della storia, delle scoperte scientifiche e tecnologiche che ci permettono di cambiare la realtà come fin’ora l’abbiamo percepita; con il risveglio delle coscienze, con l’affermarsi di moti identitari che chiedono -a ragione- maggiori ed egalitari diritti, atteggiamenti di alterizzazione, di chiusura, di xenofobia, sono ormai anacronistici e inutili. Ci serve solo capirlo e accettarlo.
Xenofobia e razzismo sono sintomi, non terapie
(Hobsbawm)
Lottare contro i tempi, contro i cambiamenti, contro i diritti del prossimo, è un atteggiamento distruttivo che, prima o poi, dovrà cedere il passo all’accettazione.
Per non farci trovare impreparati, per non far manipolare le nostre coscienze e la nostra morale, per non offrire le nostre paure a un mercato illusorio, l’unica arma a nostra disposizione è la conoscenza, la consapevolezza.
Una volta coltivate queste due si può instaurare il dialogo con l’altro -non più nostro subalterno- che passi prima per la comprensione e poi per l’individuazione di un orizzonte comune che sia, finalmente e realmente, comunitario.
Il dialogo tra persone di paesi diversi può essere piacevole o carico di tensione, a seconda delle circostanze: ma è comunque inevitabile
(A. Appiah, Cosmopolitismo)
Marianna Nusca