Cosa significa ridere? Lo abbiamo sempre fatto. È un’azione così spontanea quella di stiracchiare le labbra quando ci imbattiamo in esilaranti momenti da condividere, che ormai ci è piuttosto chiaro quanto sia una caratteristica terribilmente umana.
Però, ad un punto del nostro vivere, ci accorgiamo di non star semplicemente ascoltando una battuta o assistendo ad una scena divertente.
Ecco, è proprio quando iniziamo a pensarci per davvero, che la comicità si trasforma in umorismo e noi diamo inizio ad un cambiamento di prospettiva.
Secondo l’enciclopedia Treccani, l’umorismo è:
“La capacità di percepire, esprimere e rappresentare gli aspetti più curiosi, incongruenti e comunque divertenti della realtà che possono suscitare il riso e il sorriso, con umana partecipazione, comprensione e simpatia.”
L’umorismo e un antenato tutto nostro
Nell’agorà delle póleis, i greci si punzecchiavano nell’incertezza data dalle elezioni imminenti. Lo screditare aveva perlopiù un’impronta politica e i cittadini ne erano fortemente influenzati.
L’antenato dell’umorismo però pare sia un prodotto latino, nostrano, un genere letterario che Quintiliano affermerà a chiare lettere: «Satura quidem tota nostra est».
Ennio ne fu il fautore e con lui vi furono grandi autori classici che lo sperimentarono, come Marziale, Seneca, Giovenale e Petronio.
La satira si fa strada nella nostra tradizione, profonde sono le sue radici.
Una cena particolare.
Il Satyricon di Petronio, ad esempio, contiene uno degli episodi più importanti ed esilaranti della letteratura latina: la Cena Trimalchionis. Un liberto acquisisce in eredità il patrimonio del suo padrone e così, da una classe sociale, Trimalchione si ritrova in un’altra. I registri linguistici, i comportamenti scaturiti durante questa cena patrizia, fatta di sfarzo ed ostentazione, di cibi particolarmente stravaganti e di discorsi apparentemente seri, sono la cornice di una vita paradossale; tutta volta ad un languido divertimento in un’epoca dove sovvertire i ruoli sociali, risulta essere una battaglia ardua. Agli occhi dell’élite aristocratica appare solo di cattivo gusto: kitsch.
Ed è un kitsch che sa di caricatura, dove l’ostentata ricchezza nasconde sofferenze umane in una società turbata.
Pirandello e la comica vecchia imbellettata
Se Trimalchione può lasciarci perplessi, sarà allora un autore del primo Novecento a togliere ogni dubbio.
Nel 1908, Pirandello pubblica un saggio dal titolo “L’umorismo”, in cui è spiegata la differenza tra uno scrittore comico ed uno umorista.
Se il primo può ridere della realtà rappresentata, il secondo non può assolutamente farlo, e se lo facesse, sarebbe un sorriso molto amaro.
È qui che viene raccontata la vicenda della vecchia imbellettata coi capelli ritinti, un po’ sporchi; indossa abiti da giovane e pare ridicola agli occhi della gente.
Allora, le persone ne ridono. Questo è l’avvertimento del contrario, cioè la capacità di comprendere quanto fosse fuori luogo ed inappropriato, per una donna di quella età, stare in quel modo per la via.
L’umorismo è il sentimento del contrario
Quante volte riteniamo di poter giudicare superficialmente foto, scene, persone, accaduti che sono lontani dalle convenzioni, senza metterci un po’ di pensiero?
Pirandello non si ferma all’avvertimento. Supera, e ci pensa.
La vecchia forse avrà scelto quei vestiti, o quella acconciatura, per trattenere il marito in un amore che fatica a gestire, che non è più come un tempo.
Lo scrittore vuole infatti portare ad una riflessione il suo lettore attraverso il sentimento del contrario.
Così, con questi strumenti, Pirandello riflette sulla figura di Don Abbondio nei Promessi Sposi, e ci dice:
“Il Manzoni ha compatimento per questo pover’uomo di don Abbondio; ma è un compatimento, signori miei, che nello stesso tempo ne fa strazio, necessariamente. […] Ridendo di lui e compatendolo nello stesso tempo, il poeta viene a ridere amaramente di questa povera natura umana inferma di tante debolezze. […] Insomma, ci induce ad aver compatimento del povero curato, facendoci riconoscere che è pur umano, di tutti noi, quel che costui sente e prova, a passarci bene la mano sulla coscienza.”
Black Humor: l’umorismo che dirompe
Da “Il mondo secondo Fo”, Dario Fo diceva:
In tutta la mia vita non ho mai scritto niente per divertire e basta. Ho sempre cercato di mettere dentro i miei testi quella crepa capace di mandare in crisi le certezze, di mettere in forse le opinioni, di suscitare indignazione, di aprire un po’ le teste. Tutto il resto, la bellezza per la bellezza, non mi interessa.
In quest’epoca in cui ci hanno catapultato, l’umorismo si è tinto di una miriade di sfumature tra testi letterari e pagine social, dove la più oscura, dissacrante ed estrema di esse, resta il Black Humor.
E un genere pieno di cinismo e scetticismo, spazza via ogni precetto, diventa il paradosso della morale e di un’etica apparente, abbraccia tematiche tabù come le guerre, la morte, la violenza, la malattia e anche la sessualità. Straccia gli schemi.
Almeno una volta nella vita, ci siamo ritrovati davanti scenette sull’Olocausto, sul razzismo, sulla condizione della donna, sul terrorismo.
Nel Black Humor delle vignette, dei mille meme in giro per il web, chi applica il sentimento del contrario? Chi trasforma il comico paradossale, che riveste le sofferenze, in umorismo?
Scegliamo di pensare con l’umorismo
L’umorismo nero è una carta difficile da giocare e anche da inquadrare.
I ragazzini, ad esempio, sono in grado di lasciare che il Black Humor apra le porte delle loro menti e li spinga ad informarsi, a riflettere? Quante persone restano in superficie per non andare in apnea?
Il problema allora si fa serio, forse per fare umorismo e per capire l’umorismo, abbiamo bisogno degli strumenti giusti che ci permettano di snocciolare con cognizione il mondo in cui viviamo.
Strumenti che trovano luce se accesi i riflettori del pensiero e della cultura.
Maria Pia Sgariglia