L’optografia forense è un processo di recupero dell’ultima immagine – un optogramma – registrata dall’occhio nell’istante prima di morire.
Grazie a questa tecnica sembra possibile estrarre dall’occhio la “prova” dell’ultimo sguardo gettato sul mondo. Tuttavia, nonostante sia un procedimento estremamente descritto e utilizzato nella letteratura del XIX-XX secolo, si tratta di un metodo inutilizzabile nella realtà delle indagini scientifiche, in particolare quelle legate agli omicidi.
Infatti, nel corso del tempo, la validità dell’optografia forense è stata ripetutamente smentita, ma è necessario riconoscere che alla sua base vi sono fondamenti scientifici.
All’origine dell’optografia
Verso la fine dell’Ottocento, il fisiologo tedesco Wilhelm Kühne iniziò le prime sperimentazioni in tal senso.
Ad ispirarlo fu la scoperta da parte del medico tedesco Franz Christian Boll della rodopsina, detta anche “porpora visiva”, cioè un pigmento fotosensibile presente nella retina dell’occhio, umano e non.
Kühne ipotizzò che in circostanze ideali il pigmento di rodopsina poteva essere “fissato”, esattamente come succede nel caso di un negativo fotografico.
Il soggetto del primo esperimento di Kühne fu un coniglio albino. Al primo, seguirono altri numerosi esperimenti su diverse specie animali.
L’optogramma ottenuto dal primo esperimento fu la rappresentazione nitida della finestra osservata gli istanti prima di morire dall’animale.
Visto il successo ottenuto, Kühne divenne ansioso di dimostrare le sue teorie anche su soggetto umano.
Così, il 16 novembre 1880 l’occhio del condannato a morte Erald Gustav Reif venne prelevato ed utilizzato a fini scientifici.
Kühne riuscì ad ottenere una prima immagine dopo circa 10 minuti, ma i risultati non furono buoni (probabilmente anche perché il giustiziato era bendato al momento della sua decapitazione).
Continuarono gli esperimenti sugli animali, ma a quell’altezza temporale, estrarre l’ultima immagine osservata dall’occhio di un defunto risultava un’operazione incompatibile con mezzi e conoscenze scientifiche.
Infatti, per gli strumenti di cui si disponeva al tempo era difficilissimo operare sulle micro componenti presenti nella struttura dell’occhio. Ad esempio, la “fovea”, cioè il punto focale dell’occhio di massima acutezza visiva, la cui apertura è di pochi millimetri.
Nonostante tutto, non sono rari i casi in cui si utilizzò l’optografia forense per spiegare casi giudiziari apparentemente irrisolvibili.
Gli studi recenti
Le ricerche sull’organo responsabile della vista non si sono mai arrestate e le scoperte continuano a stupire anche gli adetti al mestiere.
La più recente ricerca nell’ambito dell’optografia forense risale al 1975, quando il professor Evangelos Alexandridis produsse degli optogrammi partendo, proprio come Kühne, dall’occhio del coniglio.
Tuttavia, disponendo di nuove attrezzature e conoscenze tecnico-scientifiche Alexandridis giudicò la tecnica inutilizzabile nell’ambito dell’indagine forense.
Così, si decise di archiviare definitivamente il metodo dell’optografia.
Giorgia Battaglia