Un nuovo capitolo della cosiddetta “Operazione Legend” è stato annunciato da Donald Trump in un’apposita conferenza stampa. Truppe federali verranno inviate a Chicago e ad Albuquerque. Le due città sono a guida democratica e sono attualmente colpite, secondo l’amministrazione Trump, da un’ondata di violenza inedita non adeguatamente gestita dalle amministrazioni locali.
L’operazione Legend era stata inaugurata a Kansas City, dove, a detta del Procuratore generale William Barr che ha affiancato il presidente americano nel corso della conferenza stampa di ieri, si è rivelata un successo quantificabile in duecento arresti in due settimane.
L’operazione prende il nome da un bambino, Legend Talliaferro, morto circa in mese fa proprio a Kansas City mentre dormiva nella propria casa diventata improvvisamente bersaglio di spari. I genitori del piccolo erano presenti al discorso del Presidente insieme ad altri parenti di vittime di crimini violenti avvenuti nelle città prese di mira da Trump.
A nessuno può sfuggire il fatto che il Presidente stia usando questa operazione come espediente per risalire i sondaggi che lo vedono ben distante dall’avversario democratico Joe Biden.
Mentre alcuni vogliono tagliare i fondi e abolire la polizia, io voglio onorarla.
Così si è espresso Trump all’inizio del suo discorso nel corso del quale non ha mancato nemmeno di citare il tanto agognato “sogno americano” alla cui realizzazione, impedita proprio dalla violenza ignorata dai democratici, lui dedicherebbe “ogni fibra del suo corpo”.
I nemici dell’America, coloro che rendono possibile questa violenza, non sono i poliziotti, di cui Trump si premura sempre di affermare il valore, ma i politici democratici, complici di delinquenti ed estremisti di sinistra ed incapaci di fare alcunché per difendere gli onesti cittadini americani.
La decisione di proseguire con l’operazione Legend porterà a molte polemiche.
Pochi giorni fa diversi esponenti politici avevano inviato una lettera a Trump per chiedere l’interruzione dell’invio di forze federali nelle città. Nella missiva, inoltre, veniva richiesto il ritiro delle truppe da Portland, in Oregon, dove erano state denunciate numerose violazioni dei diritti da loro perpetrate nei confronti dei manifestanti.
A Portland gli agenti federali sono stati inviati il 26 Giugno scorso dal governo centrale contro il parere di quello locale.
La decisione era stata presa sulla base della retorica trumpiana interessata a dipingere i pacifici manifestanti per i diritti degli afroamericani come pericolosi anarchici nemici del paese.
Se in un primo momento le forze federali erano rimaste in disparte, a partire dal 4 Luglio la situazione è iniziata a precipitare e numerose violazioni dei valori costituzionali ai danni dei manifestanti sono state denunciate. L’evento scatenante è stato il lancio di fuochi d’artificio per festeggiare il giorno dell’indipendenza americana.
Alcune persone hanno raccontato di essere state arrestate senza motivo, picchiate e tenute in cella senza acqua e senza la possibilità di contattare il proprio avvocato per ore. Diversi video mostrano degli agenti vestiti con generiche tute mimetiche prive di identificativo prelevare i manifestanti per portarli via in veicoli non contrassegnati.
Il risultato di questa azione governativa è stata la degenerazione di proteste che fino a poco tempo fa erano sotto controllo. Il sindaco di Portland e il governatore dell’Oregon, entrambi democratici, hanno chiesto a Trump di ritirare le truppe dopo che persino gli esponenti della polizia locali si erano detti preoccupati dall’aumento della violenza.
Ma il Presidente, che è arrivato a definire la situazione di Portland come peggiore di quella dell’Afghanistan, non è indietreggiato di un millimetro rispetto alla sua posizione.
Nello studio ovale lunedì 20 Luglio ha affermato che in Oregon gli agenti hanno svolto “a fantastic job”, un lavoro fantastico, e di non aver riscontrato alcun problema nei metodi da loro utilizzati.
Proprio in quell’occasione ha annunciato la decisione, ufficializzata nella conferenza stampa di ieri, di inviare altre truppe a Chicago e Albuquerque.
Questo genere di decisione rientra nelle prerogative della presidenza americana che solitamente la esercita su richiesta delle autorità locali.
Trump, invece, ha subito sfruttato le manifestazioni scatenatesi a seguito della morte di Floyd come un espediente per attaccare i governatori democratici insistendo sulla necessità di stabilire l’ordine e la legge nelle città e sull’incapacità dei politici a lui avversi di farlo. Spesso la sua strategia è stata efficace nel far degenerare le proteste in azioni violente. In questo modo Trump ha potuto nutrire la visione secondo cui la situazione, in determinati stati e città, sarebbe così fuori controllo che solo lui, il presidente della Legge e dell’Ordine, può essere in grado di porvi rimedio.
Non a caso Trump in questi giorni ha più volte ripetuto che, in caso di vittoria di Joe Biden, tutta l’America cadrebbe nel caos in cui si trovano le città governate dai democratici.
Funzionale alla sua strategia si è rivelato anche lo sfruttamento del fisiologico aumento dei crimini dovuto all’incremento della povertà causata dall’andamento della pandemia globale che lui si è rivelato incapace di gestire.
Molti esperti di diritto temono che questo utilizzo della prerogativa presidenziale, esercitata contro il parere degli amministratori locali e non su loro richiesta, possa creare una crisi costituzionale.
Al di là delle opinioni rimane un fatto: l’America sta attraversando un periodo estremamente delicato. Da una parte l’esplosione delle proteste per i diritti degli afroamericani, dall’altra la crisi sociale ed economica dovuta alla pandemia. Un presidente che soffia sul fuoco del malcontento come sta facendo Trump è l’ultima cosa di cui il paese avrebbe bisogno.
Silvia Andreozzi