Mentre stavate aspettando che questo articolo si caricasse, vi potrebbe essere sfuggito lo sguardo sul vostro smalto sbeccato. Oppure, potreste aver poggiato gli occhi sulle braccia, non perfettamente depilate. Se indossate un paio di pantaloncini corti e siete sedute al bar, invece, potreste aver spostato la gamba per non farla appoggiare in modo troppo strizzato alla sedia, per evitare che si veda la cellulite. Ecco, avete appena fatto body monitoring. Ci rivediamo tra 30 secondi.
Una delle prime persone ad aver parlato pubblicamente del fenomeno del body monitoring è stata Caroline Heldman, studiosa dell’Occidental College di Los Angeles. Nel 2013, durante un Ted Talk tenutosi a San Diego ha spiegato “The Sexy Lie”, ossia tutti quei fenomeni di mercificazione e auto-oggettificazione di cui le donne sono vittime, tra cui ci sarebbe anche il body monitoring. In questi giorni, a parlarne su Instagram, è invece stata la content creator Sara Melotti. Non sapevamo ci fosse un nome per quella precisa tendenza a tirare in dentro la pancia quando siamo in spiaggia, a controllarci il vestito quando siamo per strada, a esaminarci la piega nelle vetrine dei negozi: insomma, quell‘ansia di controllare in modo millimetricamente impietoso ogni aspetto del nostro corpo. Se sei donna, sai benissimo di cosa stiamo parlando. Se sei uomo, invece, può darsi che anche tu ne soffra, ma secondo la media non sei portato a controllarti il corpo ogni 30 secondi.
Lo hai già fatto almeno una volta da quando hai iniziato a leggere
E non è un’iperbole. Una volta ogni 30 secondi significa due volte al minuto. 120 volte all’ora, se siete appassionati di moltiplicazioni. Ora: pensate a cosa possa significare lavorare, studiare, passeggiare per strada, uscire con gli amici, persino fare sesso con questa martellante ossessione. Il punto di partenza è sempre lo stesso: il maschilismo. Siamo spesso portati a considerare i maschilisti come gli uomini che vedono le donne come esseri inferiori o oggetti. Ma uno degli aspetti più trascurati del maschilismo è quello di portare proprio le donne, per prime, a vedersi come oggetti.
Soggetti ed oggetti
Gli uomini sono i soggetti, sono i giudici, i proprietari, i protagonisti: loro spendono, scelgono e comprano la merce più invitante sul bancone. Alle donne, crescendo, viene insegnato a essere belle e desiderabili. Intere generazioni di bambine diventano ragazze in cerca di approvazione che, intanto, affogano nella frustrazione del confronto con modelli irraggiungibili. C’è un’interiorizzazione subdola della misoginia. Certo qualche passo avanti è stato fatto, con l’introduzione di campagne pubblicitarie inclusive, con il concetto della body positivity e con qualche marchio che ha smesso di utilizzare Photoshop per togliere le smagliature alle modelle.
La pubblicità e il maschilismo
Una ricerca pubblicata da Nielsen nel 2020, però, mostra che tutti questi bei concetti non sono stati molto interiorizzati. Lo studio ha esaminato 273 spot andati in onda tra il 2015 e il 2019 durante il Super Bowl, l’evento sportivo più seguito dagli Usa. I dati che sono emersi sono abbastanza esemplificativi: sulla durata complessiva degli annunci, il 71% del parlato era ad appannaggio maschile. Il triplo delle donne rispetto agli attori uomini utilizzati, però, era rappresentato da attrici magre o molto magre. O ancora: le donne apparivano in abiti succinti nove volte in più rispetto agli uomini.
Questione di target? A guardare il Super Bowl sono soprattutto uomini? In realtà non è così vero: il pubblico femminile è arrivato a sfiorare il 47% del totale. Ad ogni modo: anche se ci fosse una sproporzione nel genere degli spettatori, sarebbe corretto portare avanti la mercificazione del corpo femminile?
Il body monitoring non dorme mai
Comunque: parlavamo di body monitoring. Proviamo a pensare a quante volte, da questa mattina, quando ci siamo vestite, abbiamo pensato al nostro naso. O al nostro seno, piccolo o grande che sia. O a quei pantaloni che non abbiamo messo, perché ci fanno il sedere enorme. Proviamo a pensare al continuo refresh che, mentalmente, facciamo tutte le volte che i nostri occhi si poggiano sulle nostre umanissime imperfezioni. A quando ci specchiamo nelle vetrine dei negozi, a quando eliminiamo una fotografia perché sembra che abbiamo il doppio mento o a quanto ci sistemiamo ossessivamente i vestiti. Ragioniamo su quanta energia ci risucchia questa attività di controllo impietoso e millimetrico del nostro corpo.
C’è un’espressione più stupida di prova costume?
Consideriamo quanto tempo passiamo, ad esempio, in spiaggia, guardando il corpo delle altre e compiangendoci dal lettino sul nostro non essere così toniche, così alte, così magre, così abbronzate. Pensiamo al fatto che una donna, davvero, non lascia mai a casa quest’ossessione, nemmeno quando è in vacanza. Anzi, soprattutto quando è in vacanza, quando le sue insicurezze fisiche aumentano, se da sotto gli occhiali da sole ci si sente bullizzate dal sedere palestrato della propria vicina di ombrellone. Che, pure, avrà le sue, di insicurezze fisiche. Quanti uomini, secondo voi, fanno questo confronto estetico tanto cretino quanto doloroso con il bagnino palestrato? Quanti uomini hanno mai pensato seriamente alla stupidità dell’espressione “prova costume”?
E’ frivolezza?
Perché lo facciamo? Perché siamo frivole, oche o stupide? Lo facciamo perché il maschilismo è riuscito a farci considerare noi stesse degli oggetti sessuali, che devono essere i più sexy e i più desiderabili. Perché se una pubblicità è pensata per un uomo e contiene una bella donna, l’uomo vorrà quella donna e la donna vorrà, con anche maggior forza, essere quella donna. La strada è lunga e, oltretutto, è resa anche più tortuosa dalla lunga serie di ostacoli che la competizione femminile pone sul percorso. E dire che quest’ultima non esiste è, ancora una volta, interiorizzazione della misoginia.
Un mostro a tante teste
Alcune risponderanno candidamente che lo fanno per loro stesse. Ed è bello pensare che esista, da qualche parte nel mondo, un ristretto circolo di donne illuminate che se ne strafregano di cellulite, di peli superflui e di desiderabilità. Il problema è che il maschilismo è un mostro a tante teste e che se non ci attacca con una, ci divora con l’altra. A volte, anche il confine tra empowerment e retaggio patriarcale è davvero labile. E’ una linea sottile nella sabbia delle nostre insicurezze. Il maschilismo è subdolo e con i social lo è diventato ancor di più.
Pubblicare una fotografia ammiccante e mezze nude è davvero un atto di liberazione sessuale in barba al puritanesimo? O è un’illusione infingarda di cui siamo ancora una volta le vittime? E’ il circolo vizioso del maschilismo: a volte, ti vende la mercificazione del corpo femminile come libera espressione della tua corporeità. Quando pubblichiamo qualcosa, facciamoci caso: abbiamo controllato di essere uscite magre, truccate, impeccabili? Stiamo bene attente ai canoni estetici che sottendono alla desiderabilità? In conclusione: combattiamo il sistema o ne siamo parte?
La bellezza nel 2020 è ancora un valore?
Non c’è nulla di male nel pubblicare un selfie ammiccante, non è questo il punto. E’ sempre un discorso di consapevolezza e di percezione di sé. Dopo secoli di mercificazione del corpo femminile, non è certamente facile liberarsi della zavorra di maschilismo che ci portiamo dietro. Siamo costantemente bombardate da standard di perfezione ingannevoli. Subiamo stress correlati all’estetica da mattina a sera. Il problema che va a braccetto con il maschilismo è il fatto che nel 2020 la bellezza sia ancora un valore. Siamo cresciute con una sfilza di apparentemente innocui “Come sei bella” invece di più costruttivi “Come sei intelligente”, “Quanta fantasia hai”, “Come sei forte”.
La soluzione? Non è facile
La soluzione? Non esiste. E soprattutto non è facile svegliarsi un giorno e dire “Ora non mi interessa più nulla della bellezza, né di quella mia né di quella delle mie colleghe né di quella di Emrata”. Educhiamoci, come consumatrici, come lavoratrici, come lettrici, come fruitrici di contenuti. Da amiche, da colleghe, da sorelle, da figlie, da fidanzate, facciamo la nostra parte nell’affrancarci dalla prigionia della perfezione e della desiderabilità. Autocensuriamoci quando la prima cosa che ci viene in mente di pronunciare è un commento sull’aspetto fisico di un’amica, una sorella o una collega. E’ una scelta economica, politica, sociale e culturale di liberazione.
L’intervento di Caroline Heldman al TED di San Diego del 2013
Elisa Ghidini