Non sono mai entrata in un carcere. L’ho solo immaginato. E l’idea di questo posto, che proprio lontano non è, ha sempre assunto la forma, o non forma, di un ambiente con poca luce, con solo il ricordo di profumi lievi e famigliari, e nel quale la forza di gravità appare più potente, a causa dell’aria spessa e pesante.
Non ci sono mai entrata, ma spesse volte ci ho pensato. Ed ho pensato soprattutto alla condizione, allo stato che vive una donna che si trova in un carcere: il sole, le stelle, una farfalla che si vede volare in cielo e il cielo stesso, di cosa sono fatti, come appaiono dalla finestra di una cella? E le canzoni di quei tempi passati, si ricordano ancora? L’ingenuità cullata su un’altalena, l’emozione del primo bacio, la solleticante freddezza della pioggia sulla pelle, il vento che, schiaffeggiando il volto, sembrava essere l’unica punizione per gli errori commessi… tutto questo, tutto quello che è stato, come appare? Meglio, appare anche ora, mentre si procede lungo un corridoio senza foto affisse al muro, e senza nessuno che aspetta lì, dove esso termina? E domani, il domani, continua ad esistere, anche nell’ assenza di calendari e di agende da riempire di vita e di impegni, che rendono ogni giorno diverso e speciale?
Ci ho pensato spesse volte, sì. Ma non ci sono mai entrata. Ogni mia idea, ogni mia supposizione, ogni mia immaginazione, quindi, oltre che donarsi a legittime contraddizioni, si propone nella sua debolezza e infondatezza.
Ed oggi, oggi in modo particolare, ogni mia idea, incontra la realtà. Piccola, nei tempi e negli effetti, ma forte e significativa nel senso e nell’energia di cui è fatta e con cui è avvenuta.
Perché, forse, è nella natura umana non arrendersi e non darsi per spacciati, per spacciate. Forse non è neanche questione di ragione né di orgoglio né di sentimento: è semplicemente questione di istinto. Sono le mani a chiedere qualcosa da fare; sono i pensieri a prendere la rincorsa per poi correre incontro a mura o sbarre, per cercare di abbatterne l’altezza; sono le doti e la consapevolezza di esser capaci che chiedono, che pretendono di non essere dimenticate. È istinto. Ma non quello di sopravvivere: quello di vivere. Quello che, nelle mani delle donne detenute nel carcere femminile di Lecce e in quello di Trani, ha posto, non solo caparbietà e speranza, ma anche ago, filo e stoffa. E non si può dire che non se ne sia fatto un buon uso.
Avevo fatto un patto con me stessa prima di mettermi a scrivere: nessuna cifra, nessun numero, nessun calcolo. In carcere, se ne sentono già tanti, ma non posso certo omettere i sei metri di altezza, i tre di larghezza e gli otto di tracolla della Borsa più grande del mondo che le donne dei carceri menzionati, hanno realizzato. E con la quale sono state incluse nella gara del Guinness dei primati, pensata ed organizzata per l’iniziativa Made in carcere.
Molto più di un tentativo di vincere il primato: una borsa ha tutto il significato del contenere, del custodire, del portare con sé e se questa, poi, presenta dimensioni importanti, c’è solo da immaginare cosa e quanto le donne che l’hanno realizzata, ci abbiamo messo dentro. L’arte del tessere riporta alla solitudine e alla speranza di una Penelope innamorata, riporta all’ attesa di un ritorno che diventa motivo della propria stessa esistenza: il tessere, il costruire, il combinare colori di cui sono state capaci tutte le sarte coinvolte nel progetto, probabilmente proviene dagli stessi sentimenti, ma parla anche di coraggio e di una voglia di libertà che neanche la mega Borsa può contenere. E di cui è difficile farsene carico, nonostante la lunga tracolla.
Dalle testimonianze lette, sia di uomini che di donne in carcere, ho capito che tutto, lì dentro, acquista importanza e valore, e che anche un piccolo ragno, può esser compagnia. Ho capito che a mancare non è il piatto preferito ma il profumo, il sapore di casa e di famiglia e di condivisione. Ho capito che ad opprimere non sono le sbarre né le finestre troppo alte, ma è il buio e il vuoto che si ha dentro sé: la tempesta non è al di là, ma è di qua. E ho capito che esiste una voglia, un desiderio che si fa spazio e che si fa voce nell’animo di chi vive l’esperienza del carcere: quello di non essere dimenticati, dimenticate. Il desiderio che il tempo sia fermo fuori come lo è dentro affinché non spazzi via il loro nome dalla mente e dal cuore di chi non si può abbracciare. Il desiderio di dire, di urlare, di far qualcosa perché il mondo sappia che non si è morti, morte. Ma si vive ancora. E si spera e si crea e si lotta. E si impara.
E nella mega Borsa realizzata da queste donne, credo ci sia questo. E molto di più. Quel molto che non so, che non posso capire e che non riesco ad immaginare. E forse, è giusto così. È meglio così.
La Libertà di custodire segreti e sogni e nostalgie, quella, non la si può e non la si deve oltraggiare.
Deborah Biasco
Un’iniziativa che mi auguro possa rivelarsi feconda. Condividiamo con molto interesse e piacere.
Vanda Fontana per PARVA Casa delle Donne
Unendomi nell’augurio che avete espresso, vi ringrazio.