Di Dario Arkel
Nel 1913 il Premio Nobel per la letteratura venne conferito a Rabindranath Tagore (1861-1941), un filosofo, poeta e drammaturgo indiano già molto noto in Occidente. Tradotto in molti Paesi era sbarcato in Italia grazie all’editore Carabba di Lanciano. Ora quest’editore dice forse poco, ma all’epoca Rocco e il figlio Gino Carabba facevano Cultura maiuscola, grazie anche all’apporto di Giovanni Vailati, un poliedrico matematico di notevole ingegno, e al noto letterato Papini.
Nacque allora, con i libri di Tagore, la collana “La cultura dell’anima”, una delle massime espressioni di umanesimo pedagogico-filosofico in Italia. Ispirati da esperienze editoriali tedesche, i Carabba riuscirono ad interessare un pubblico piuttosto vasto per l’epoca. La scelta dei testi era sempre un salto nella conoscenza, un tuffo in quell’oltre-umano che solo i veri maestri sanno provocare.
Tagore, indiscutibilmente, fu uno di questi.
La lievità dei suoi versi, la semplicità dei temi trattati, sempre su argomentazioni universali a tutti accessibili e, al contempo, la ricerca di meditazione sostenuta dal richiamo alla natura tesa alla riflessiva beatitudine celestiale e all’amore per l’umanità, il rispetto di essa, aprirono una finestra nella radura poco esplorata di una felicità esclusiva, lontana dai beni mondani e ben poggiata sul sé e l’oltre, da intendersi come l’Altro. L’umanità sostenuta dall’anima, dalla povertà esteriore e dalla ricchezza interiore, da un nutrimento spirituale che si distendeva in una religione filosofica del bello e del vero secondo la scansione delicata e libera della confluenza del buddismo e dell’induismo, significarono per le genti d’Europa avviate alla prima guerra mondiale, un richiamo alla pace e all’incontro, dell’uguale e del diverso, un’idea di fraterna condivisione umana.
Il campo letterario fu toccato profondamente da questo scrittore che a più riprese venne citato da Cesare Pavese come una guida, mentre il campo filosofico venne quasi stravolto da quest’incontenibile religiosità senza un dio cui rivolgersi poiché la divinità è nell’anima di chiunque.
Il testo Sadhana può dirsi con buona ragione fondamentale per la conoscenza del suo pensiero, in quanto riferisce della cosmicità presente in ognuno, del rispetto per se stessi e per l’altro in una fusione di sentimenti e di suggestioni che conducono alle domande sul perché della vita e quindi sulla risposta. Una risposta che non riguarda il dovere, tipico degli Occidentali, ma per magnificarsi dei nutrimenti terrestri e mantenerli riproponendone il germogliare ciclico e infinito. Siamo parti dell’infinito, del cosmo come della Terra, del pianeta al quale dobbiamo la vita perché il cielo, l’aria, la coltiva, nel flusso senza fine della rinascita.
Tra le altre, queste preposizioni hanno spinto nel terribile anno 1942, nel ghetto di Varsavia, il medico-pedagogo, scrittore e filosofo ebreo polacco Janusz Korczak (1878/9-1942) a tenere a mente che vivere è, in qualche modo, un oltre. Potrebbe essere, è vero, il morire che a poco a poco avanza dacché si è nati, ma non è solo questo. La presenza di un bene sfugge alla fine e tende a riperpetuarsi moralmente anche sulle generazioni a venire in termini di evocazione fisicamente concreta.
Nel 1911, dopo anni di richieste, finalmente il pan doktor Korczak, poté vedere edificato secondo i suoi progetti l’orfanotrofio ebraico Dom sierot “La casa del bambino”. Qui poté rendere concreta l’idea di una casa interamente gestita dai bambini, dove i bambini si educano tra loro secondo il metodo del “monitore” (oggi chiameremmo peer education (educazione tra pari) o mentoring), dove gli assistenti (da 6 a 9) propongono e non comandano circa 200 bambini, dal neonato al quindicenne. Creò all’interno il Tribunale dei bambini che giudicava i comportamenti (anche degli assistenti e dello stesso Dottore) secondo delle Leggi variabili, proposte dai bambini su una lavagna a tutti visibile. Ideò due testate giornalistiche, una per l’interno della casa, l’altra per l’esterno, redatte e stampate nella tipografia annessa dagli stessi piccoli, e conferì la totale autonomia all’edificio con apposite sale dormitorio, refezione, sala medica, sartoria, falegnameria, liuteria, teatro. Una caratteristica vetrina conteneva gli oggetti perduti dai bambini. Oggetti senza valore per nessuno, tranne che per loro che in questi potevano ritrovare l’odore della mamma perduta in un lembo di stoffa, o l’immagine di una gita ai laghi Mazuri in un sassolino multicolore. Così si insegnava il valore degli oggetti, il valore dato dal cuore e non dal valore economico. Il primo essendo valore vero, il secondo soltanto un prezzo.
Lettore e scrittore instancabile, Korczak aveva scoperto probabilmente ancora giovane i libri di Tagore. E’ provato che ne fu affascinato e che per anni rimeditò sulle pagine filosofiche dell’Indiano tanto da ispirarsi all’idea della cosmicità umana, della fusione con lo spazio-tempo e della fine non definibile dell’uomo. Non è che propriamente si rinasca, ma si resta. E non solo nella memoria, ma nell’accumulo delle azioni compiute: ogni cosa ritorna modificata dall’esperienza fatta anche da un solo uomo, e questa modificazione è sinonimo di utilizzo e di rinforzo del bello. Una vera poièsis, il fare poetico di chi non è necessariamente poeta. La trasformazione di ciò che incontriamo e, in ultima analisi, anche della nostra stessa vita, è la poesia di chiunque. Non è invero questione di forza di volontà, ma sperimentazione continua del superamento degli ostacoli, primo tra tutti il dolore, la sofferenza, che tutti proviamo e che superiamo, comunque.
La vita nera di quei bambini durante l’occupazione nazista implicava per Korczak l’esigenza di scrivere un finale che tale non fosse. Un finale legato all’oltrenero, ovvero alla ricerca di luce. Egli sapeva che la fine sua e dei suoi piccoli sarebbe giunta. Osservava la morte ovunque e da tempo ormai i carnefici nazisti adottavano i treni per il trasferimento nei campi della morte.
Tra i suoi libri della sua rastremata biblioteca cercava una soluzione, un atto simbolico ma vitale che potesse funzionare per allietare i bambini nel controverso sentimento del rilasciarsi nella morte, consapevoli e inconsapevoli al tempo stesso, verso un mistero di acuminato dolore che poteva trascinarsi sino a comprendere i colori di una rinnovata avventura. Aveva poco tempo, ma si diede da fare. Chiamò gli assistenti rimasti e parlò ai bambini. Bisognava presentarsi all’imminente chiamata, il treno non aspettava nessuno. Gravemente agli assistenti denunciò quanto sarebbe accaduto. Che cosa si immaginava, Korczak? Potremmo anche azzardare che a suo avviso qualcuno sarebbe anche scampato, ma più probabilmente disse solo che cosa per lui fosse la morte, ne delineò la sua organizzazione, e dovette spiegare come lui avrebbe inteso creare l’avvenimento. Non ne sarebbe stato travolto, né lui né loro né, tantomeno, i bambini. Sarebbe stata una gita nell’oltre, una recita che sarebbe cominciata subito.
Primariamente dispose che i bambini preparassero in sartoria i vestiti più belli, fece quindi rattoppare le bambole e sistemare le marionette di legno. Fece accordare il violino e tendere le corde del tamburo, e provvide a lavare la bandiera del Dom sierot con il quadrifoglio verde in campo d’oro e la Maghèn David dall’altro lato.
Quindi per diversi giorni fece ascoltare ai bambini le musiche più belle, serie e pure scherzose, e i canti, i cori dei lavoratori di Polonia e di Russia. E tirò fuori il suo libriccino.
Si trattava della pièce teatrale di Tagore “L’ufficio postale”. La trama riportava il bambino alla sofferenza di quei giorni, ma al contempo conteneva la gaiezza della morte-fusione nel mondo. “L’ufficio postale”, in sintesi, narra di Amal, un orfano che, a causa di una errata diagnosi medica, viene rinchiuso nella casa dello zio (metafora del ghetto). E qui e così muore, sognando di essere il postino che corre per verdi praterie in compagnia di Sudha, una piccola fioraia coi campanelli alle caviglie, recando con sé le lettere che deve consegnare a mille e mille persone. Lettere liete o importanti, lettere che curano, messaggi utili per guarire e utili per amare e rincontrarsi.
Il testo venne messo in scena nel teatro della casa dell’orfano il 18 luglio del 1942. I componenti del Consiglio ebraico, presenti alla rappresentazione, piangendo chiesero al dottore perché avesse fatto mettere in scena un lavoro così triste. Korczak rispose che non era triste, ma soprattutto: “perché i bambini imparino a morire”.
Dunque, all’ora stabilita, il 4 agosto 1942, quando i soldati tedeschi vennero a sgombrare l’orfanotrofio, Korczak scese per ordinare loro, nel suo perfetto tedesco, di “allontanare i cani che spaventano i bambini”. I bambini sarebbero usciti ordinati, in fila, senza alcun bisogno di essere condotti o spinti. E quando i soldati li videro, capirono. Secondo alcune testimonianze e descrizioni erano pulitissimi, in piena salute, bellissimi. Il primo suonava il violino, il secondo il tamburo. Gli altri seguivano, le mani intrecciate. Cantavano gli inni alla pace e al lavoro, cantavano stringendo le bambole e gli orsacchiotti rattoppati. Sopra di loro sventolava la bandiera. Il dottor Korczak, sotto il suo berretto da marinaio, in braccio teneva il bimbo più piccolo. Marciava spedito verso la Umschlagplatz con gli occhi appannati e l’affanno. Quando gli si avvicinò un ufficiale medico che l’aveva riconosciuto come suo professore di pediatria all’Università di Berlino e gli chiese di sfilarsi dal gruppo perché volevano risparmiargli la vita, pare che egli abbia risposto: “lei forse conosce una madre che lascerebbe solo in mani estranee il proprio figlio? Beh, io di figli ne ho 203 e ne sono il padre e la madre”.
Salì la rampa del treno così come questo avrebbe salito la rampa mortale di Treblinka. Non aveva nulla da ripensare né da rivedere. I suoi figli incontravano il tutto, dal niente che avevano avuto. E questo tutto diveniva il niente, la gita verso la confluenza del sole con le stelle.
Bibliografia
Rabindranath Tagore: La vera essenza della vita. Sadhana. Milano, Corbaccio ed., 2000
L’ufficio postale, Lanciano, Carabba ed., 1917
Janusz Korczak: Diario del ghetto, Milano, Luni ed., 2013
Dario Arkel: Ascoltare la luce, vita e pedagogia di Janusz Korczak, Atì ed., Milano, 2009
Dario Arkel: La società pedagogica – dal pesantemente necessario al benevolmente opportuno. David and Matthaus ed., Serrungarina, 2016
Ho avuto il piacere di poter leggere grazie al professore Arkel questo articolo…Non conoscevo prima di ora Korczak, ma trovo che sia stato un uomo degno di essere ricordato ancora oggi, per l’amore è la forza con cui ha accudito quei 203 bambini in un periodo nel quale ogni giorno la morte poteva bussare alle porte.
Ringrazio il professor Arkel per avermi fatto studiare la Pedagogia sociale. Tra i tanti protagonisti di questa materia, spicca il nome del dott. KORCZAK che, con la sua filosofia di vita, di una vita oltre la morte,ha voluto far capire al mondo intero che egli stesso,insieme ai suoi 203 bambini,ha vissuto un’ esistenza dell’ essere e non la noiosità dell’ esistere. Oggi più che mai dovremmo ricondurci al suo esempio per affrontare una società piatta e monotona,dove si corre il rischio di entrare nella cupa ed opaca crisi di esistenza.
Tagore e Pavese li scoprii in età giovanile, quasi allo stesso tempo, e sono rimasti dentro. D’altro canto, come bene evidenzia Dario Arkel, in questo brillante pezzo di storia e di critica letteraria, Tagore e Pavese guardavano a un uguale (comune) “oltre-umano” dominato dalla semplicità. Evidenzia Arkel: “L’umanità sostenuta dall’anima, dalla povertà esteriore e dalla ricchezza interiore, da un nutrimento spirituale […]”. E’ fuor di dubbio che Pavese fu influenzato, e non poco, da Tagore: più che nei romanzi e nei racconti, in alcuni versi di Pavese è evidente la lievità, un trasporto di religiosità non contaminato da sotterfugi linguistici, come in “Dove sei tu luce, è il mattino”.
Tentando un azzardo, si potrebbe forse dire che Janusz Korczak fu un precursore dell’esistenzialismo: “[…] il morire che a poco a poco avanza dacché si è nati […]”.
Il presente saggio è un riuscito esempio di fusione tra sentimento e suggestioni.
Dario Arkel ha saputo cogliere ciò che il pedagogo polacco aveva provato a spiegare ai suoi orfani facendo mettere loro in scena il dramma di Tagore: la morte non come punto finale ma come oltrenero e quindi come ricerca di luce.
Grazie ad Arkel Korczak, i bambini dell’orfanotrofio e persino i loro oggetti perduti, quelli esposti nella piccola vetrina, continuano a vivere e ad essere per noi guida per superare l’oltrenero e per abbracciare “un’idea di fraterna condivisione umana”.
Ringrazio il Professor Arkel per avermi fatto conoscere Korczak il quale è un grande uomo da molteplici punti di vista e che ha insegnato tanto ai suoi orfani ne “la casa del bambino” quanto a noi che lo ricordiamo oggi. Nei momenti più difficili, con un mondo devastato dalla guerra, lui è riuscito a far vivere in armonia i suoi bambini, facendoli crescere in base alle loro regole, dando loro la libertà che dovrebbe essere propria di ogni bambini. E la lezione più importante è stata l’ultima: non avere paura della morte, poiché questa e solo una fase della nostra vita.
Quei bambini hanno marciato con coraggio verso la loro triste fine e Korczak insieme a loro poiché si davano forza a vicenda e poiché marciavano verso un quakcosa di più grande che andava oltre la semplice morte.
Korczak merita di essere ricordato così come le sue idee meritano di essere conosciute e studiate.
Toccante e meravigliosa la storia del professor Korczak. Oltre alla splendida testimonianza di come un uomo abbia saputo insegnare ai bambini quanto la vita è un “passaggio” e impegnarli nella preparazione del viaggio in quel tragico momento della Storia, il suo messaggio è consolatorio per tutti noi.
Grazie Dario per avermela fatta conoscere.
vi ringrazio tutti, arricchite il messaggio con le vostre acute osservazioni.
Grazie per questo articolo.Trovo che Korczak sia una figura molto impprtante su cui riflettere e studiare…pensiero e opera…soprattutto in questo nostro tempo che rischia di cadere o nella disperazione o nella illusione o in sterili pericolose reazioni. Grazie a Dario Arkel per il suo importante lavoro.
Il corso di pedagogia sociale tenuto dal professor Dario Arkel è qualcosa di unico; personalmente sono contenta di aver partecipato a tutte le lezioni perché non è il solito corso di pedagogia sociale, è qualcosa di “speciale” che ti forma a 360 gradi. Il professor Arkel ci ha fornito informazioni nuove, diverse!! Qualcosa che non si può esprimere a parole. Grazie a lui ho conosciuto Janusz Korczak, del quale non sapevo assolutamente nulla!
Consiglio la partecipazione alle lezioni e la lettura dei libri scritti dal professor Arkel, perché, oltre ad accrescere il proprio baglio culturale, formano come persona ma sopratutto come genitore.
Diversi sono i temi trattati nelle lezioni e mi viene difficile riassumerli tutti in così poche righe.
Ringrazio il professor Arkel per avermi trasmesso la gioia con il quale lui stesso parlava della sua materia. Sarà indimenticabile.
Arkel è un coraggioso. E i coraggiosi costruiscono i ponti; i ponti ci portano a vedere luoghi nuovi, ci avvicinano. Korczak e Tagore come Schopenhauer, o Nietzsche, e le filosofie orientali per un disegno sincretico di nuova filosofia e indispensabile pedagogia sociale. Ancor più indispensabile oggi, questo Arkel che ci fa conoscere meglio Korczak anche per non dimenticare, proprio in questi giorni che abbiamo perso (ma non la sua Opera) Eli Wiesel, ma senza rancore per l’Uomo e quello che è capace di fare, bensì costruendo un nuovo ponte, lucente, che ci traghetti all’oltrenero.
Lucidità e commozione accompagnano queste parole. Scoprire o riscoprire la lezione dell’amore senza condizioni, che non vuol dire sottomissione illogica, è un talento che oggi coltiviamo sempre meno, presi dalle paure meschine, anche se talvolta innegabili, del presente materiale.
E’ cercare nell’altro il “segno” della propria umanità, riconoscerlo e riconoscersi umani, perché finiti, ma anche divini, se ci abituiamo a lasciarci abitare dall’amore.
conosco Tagore, mi accompagna da sempre, devo molto al suo pensiero e alla sua opera, in particolare, “Il giardiniere e i “Gitaniali” hanno lasciato un solco profondo e determinante per la mia formazione umana, spirituale, professionale: hanno aperto la mia anima e il mio cuore a un universo di luci,di musica, in cui ogni creatura trova il suo posto , la sua voce, il senso dell’essere nella quieta armonia del Tutto. Quando rileggo i suoi versi, è come se anch’io trovassi il mio posto e il senso escatologico dell’essere dentro l’infinito fluire del Tempo. Con Pavese ,ho sperato, pianto e sofferto durante gli anni verdi. Ora , attraverso questo saggio del prof. Arkel, conosco un altro grande, un altro maestro, Korczak: un uomo che ha fatto della sua vita l’incarnazione dei suoi principi morali, dei suoi ideali, che ha fatto dell’amore e della dedizione agli altri, la sua ragione di vita , fino al sacrificio estremo. Viviamo in un tempo di grande confusione, in una “società liquida” ha detto qualcuno, fatichiamo a trovare principi, valori e ideali condivisibili, la società multiculturale che volevamo costruire va degradando in egocentrismo anarchico, dissolutivo e dissoluto dove la persona è diventata mercificata e mercificabile. Forte più che mai si avverte il bisogno di esempi di vita significativi e positivi, che ci riconducano al senso dell’umano, alla ragione del cuore.Soprattutto i nostri figli ne hanno bisogno. Allora , grazie prof Arkel , per averci parlato di Korczak
Come presidente dell’Associazione di Volontariato del Piemonte Onlus Janusz Korczak, ringrazio il professor Dario Arkel per lo splendido e commovente articolo con il quale ancora una volta è riuscito, da valente studioso quale egli è, a descrivere in modo sublime la vicenda umana ed eroica del grande Pedagogo ed Educatore Janusz Korczak. Grazie Dario!
La pedagogia che ci indica il professor Arkel è sempre stimolo a portare avanti la volontà di migliorare il rapporto tra insegnanti e bambini; Korczak indicava già la via per metodologie che tutt’ora sono le migliori a mio parere perché la scuola diventi il luogo dove si formino insieme alunni felici, autonomi e responsabili con docenti che indicano le strade migliori senza imporre scelte obbligate …. Parola di maestra, come spesso dico , le lezioni del professor Arkel sono oro colato !
Molto emozionante.