La cultura del cibo ci circonda più di quanto possiamo immaginare: pensate al piatto fumante di spaghetti al pomodoro che avete mangiato chissà quante volte per pranzo. Homo sapiens è l’unico animale che trasforma il suo cibo prima di mangiarlo. È quello che ci differenzia dalla natura e che identifichiamo come un processo culturale.
Da nomade a stanziale
Il genere Homo ha posto una pietra miliare nella sua differenziazione dagli altri animali nel momento in cui ha cominciato a cuocere il cibo. Questo ha permesso un introito calorico maggiore, una digestione più veloce e la possibilità di avere un cervello più grande rispetto agli altri primati. Un altro evento rivoluzionario riguardante la nostra alimentazione va ricercato in tempi più recenti, nel Neolitico, quando l’uomo, già diviso in gruppi più o meno grandi, passa da una condizione nomade a stanziale. Questo ha permesso alle popolazioni di crescere numericamente e con l’incremento demografico, arriva anche la necessità di aumentare le risorse alimentari. Ed ecco, quindi, nascere l’agricoltura e l’allevamento: il punto di rottura con la natura e il momento in cui cominciamo a considerarci esseri civilizzati.
Il problema del tempo
A quel punto l’uomo scopre la stagionalità, il susseguirsi di periodi freddi e caldi, che influenza la reperibilità delle risorse naturali che può ricavare dal territorio. Iniziano, quindi, le ricerche su come conservare il cibo nel modo migliore, in modo da poterlo avere tutto l’anno. Parallelamente vengono selezionate specie di vegetali in grado di resistere in maniera migliore al freddo. È una prima, timida, manipolazione del tempo, la lungimiranza di un uomo antico che cerca di sopravvivere abbandonando la sua vita da randagio.
Chi progetterebbe di conservare qualcosa se non avesse la speranza di vivere abbastanza per poterlo mangiare poi? Nella conservazione del cibo si intravede, quindi, il pensiero di un progetto a lungo termine.
La cultura del cibo: cucinare per conservare
Insieme alle tecniche per conservare il cibo, arriva anche la trasformazione vera e propria del prodotto: la produzione di latticini per preservare il latte, la lavorazione dei cereali per creare pane e pasta, le marmellate e le confetture, l’affumicatura, la salatura, la fermentazione. Quest’ultima, ha un significato altamente simbolico: la capacità di trarre vantaggio dal processo di putrefazione e modificarlo a proprio piacimento.
Arriverà in seguito la refrigerazione e la possibilità di conservare senza trasformare subito il cibo nel prodotto finale. La nostra cultura del cibo evolve, fiancheggiata dal progresso tecnologico.
La tecnologia e la gastronomia
È proprio il progresso tecnologico che ci permetterà di continuare a modificare la cucina e il nostro modo di mangiare. La rivoluzione culinaria si perpetuerà nei secoli e permetterà poi, tramite i viaggi e le migrazioni, di diffondere i propri sapori e di acquisire nuovi gusti. Per esempio in Europa arriveranno il mais dalle Americhe e il riso dall’Asia. Con il tempo si formeranno nuove tradizioni, cucine regionali e tecniche di trasformazione del cibo. La cucina diventerà un’arte sempre più articolata nelle sue mille sfaccettature, ma sempre ricca di significati simbolici e culturali.
Abbiamo trasformato un bisogno primario in un piacere, in un momento conviviale, lo abbiamo elevato ad arte e svenduto alle televisioni trasformandolo in uno show. La cultura del cibo può essere usata come metafora della civiltà umana. Possiamo apprezzare la nostra storia tramite un brillante percorso evolutivo partito migliaia di anni fa.
Ed è tutto partito da un uomo che un giorno ha deciso di provare ad usare il fuoco per cucinare.
Giulia Fasano