La parola inglese che significa espiazione è atonement. Il termine possiede una chiara etimologia che rivela la natura stessa del peccato da espiare. Atonement deriva da at-one-ment che nel Middle English, cioè nell’inglese diffuso tra il 1200 e il 1500, indicava l’unione, il riportare all’unità.
Da ciò possiamo dedurre che il peccato (o la colpa in termini laici) non è, come sostengono per necessità lo Stato e la Chiesa, tanto una disobbedienza all’autorità, ma somiglia più ad un atto di separazione di ciò che precedentemente era unito.
Il peccato nel mito della Genesi
Nella teologia cattolica, la caduta dal paradiso terrestre simboleggia appunto questo atto sovversivo e sciovinista. L’uomo e la donna nel giardino dell’eden non potevano provare vergogna per il semplice fatto che erano, non individui separati, estranei, ma un’unità, “una sola carne”. Questa condizione, che Fromm chiama pre-umana, presenta a ben vedere analogie con la condizione indifferenziata della mente del neonato che assume, secondo una prospettiva dinamica, identità attraverso un processo di differenziazione. Mangiando il frutto proibito dall’autorità divina, Adamo ed Eva sono venuti a conoscenza della reciproca estraneità, oltre che del bene e del male: ora si vedono differenziati, non più “ossa delle mie ossa, carne della mia carne”, ma carne e ossa da temere e quindi da possedere.
Non a caso, Eva non tenta affatto di difendere Adamo, e Adamo cerca di salvare “la propria carne” denunciando in Eva la colpa per rendersi scevro agli occhi dell’autorità di cui teme la punizione. Ancora, il matrimonio tra Eva e Adamo non è avvenuto prima della cacciata dall’eden, ma soltanto in seguito quando appunto sono diventati separati è stato possibile contrarre, formalizzare, quantomeno negli intenti, l’unione del matrimonio che, come esplicitato dal mito di Platone, rende vicino ciò che prima era unito e poi si è diviso.
Guarigione, non punizione
Per continuare, se l’espiazione, che nella genesi cristiana può essere ricondotta senza eccessivi timori al matrimonio, è il tentativo di unione, allora il peccato non è in relazione ad un’autorità esterna ma deriva dall’interno. Non ha bisogno perciò di venire tanto perdonato, bensì di essere guarito, colmato come un bicchiere che è in attesa di unirsi al liquido. Fromm dirà che nella modalità esistenziale dell’avere, fondato cioè sul possesso e sull’autorità, il peccato si esaurisce in un circolo vizioso che parte dalla disobbedienza, passa dal pentimento e dalla punizione per giungere infine ad una nuova ma già usata sottomissione; mentre nella modalità dell’essere, quella costruita attorno una relazione sincera con il prossimo, il senso di colpa non sussiste perché il peccato è estraniamento non cucito di sé ed “è vinto dalla piena esplicazione di ragione e amore, dal divenire-uno”.
Colpa e responsabilità
Anche la Arendt distinguerà la colpa dalla responsabilità. La prima attiene alla sfera etica individuale e, quindi, a tutte quelle azioni compiute da un singolo in riferimento alla propria legge morale. La responsabilità, invece, ha a che fare con la sfera politica e l’interpretazione maggioritaria e sociale delle nostre azioni. Detto in altri termini, può esistere una colpa solo nella misura in cui c’è condivisione di un’etica da parte di accusato e accusatore.
Diverso è il discorso per il vissuto di colpa, che può esserci anche in assenza di colpa. In quanto, la norma o la legge, per essere rispettata, ha bisogno che sia anche trasversalmente accettata, poiché il suo compito, secondo il funzionalista Parsons, è quello di garantire la coesione sociale. Perciò, Durkheim sostiene che la punizione sia tanto utile alla società e al cittadino non-deviante – per motivi di normalizzazione – quanto superflua, o addirittura dannosa, per il condannato. La punizione, indotta dal sistema accusa-colpa, scrive Durkheim:
“non serve, o non serve che secondariamente, a correggere il colpevole o a intimidire i suoi possibili imitatori. La sua funzione è di mantenere intatta la coesione sociale, conservando alla coscienza comune tutta la sua vitalità. Il castigo è destinato soprattutto ad agire sulle persone oneste; infatti, poiché serve a guarire le ferite inferte ai sentimenti collettivi, può adempiere a questa funzione soltanto dove questi sentimenti esistono, e nella misura in cui sono vivi”.
L’obsolescenza dei boia, delle vittime, dei confessori e dei peccatori
In questo senso, sarebbe auspicabile una decostruzione di questi paradigmi fondati sul concetto stantio di normalità e devianza. Non c’è più bisogno allora di boia e di vittime, di confessori e penitenti, di guaritori e di malati. Perché, innanzitutto, l’autorità perde il primato dell’espiazione. Come scrive Tommaso d’Aquino:
“Dio non può mai essere offeso da noi, a meno che noi non agiamo contro il nostro stesso benessere”.
Poi, lo strumento dell’atonement non è più l’accettazione della punizione da parte del penitente, ma l’amore preoccupato, preoccupazione primaria direbbe Winnicott, che lenisce la ferita ancora prima di vederla, di riconoscerla, cioè, nel senso originario di videre, di conoscerla attraverso nomi ed etichette, che diventano quindi obsolete. Già nel Tao Te Ching si avvertiva che non può esistere vera comprensione in presenza dei costumi, delle etichette.
Realizzare quel che di possibile c’è nell’impossibile
Tutto ciò, per quanto ingenuo, faticoso e utopico, necessita quantomeno, per “rendere più possibile l’impossibile“, di una condivisone di intenti da parte dei singoli individui proprio perché per raggiungere l’atonement non si può chiedere aiuto alle autorità, per la loro intrinseca motivazione a proteggere le proprie gerarchie su cui si fondano e si mescolano.
Per millenni, i devianti dalla cosiddetta norma, la quale, come insegna Durkheim, è la media dei comportamenti in relazione ad uno spazio-tempo – in quanto tale quindi non esiste come realtà, ma solo come fatto sociale – sono stati appellati ed etichettati nei modi più diversi. Dai barbari dell’età ellenistica-romana, ai peccatori del medioevo, al selvaggio e all’uomo criminale dell’illuminismo, fino ad arrivare ai giorni nostri con l’individuo che ha assunto sempre più contorni medicalizzati e si può riconoscere solo in associazione con il possedere e l’avere un’etichetta diagnostica, di classe sociale o in relazione a quanto può avere per consumare.
In tutto questo tempo, non sembra pervenuto un miglioramento sostanziale, che non sia cioè leziosamente di facciata, delle condizioni dell’individuo considerato deviante. Riprendendo Spinoza che riservava alla gioia della “vita activa” un posto centrale nel suo sistema umanistico, possiamo spingerci a dire con lui che il benessere dell’uomo è assecondare la sua “umana natura”, che spinge verso l’attività (da non scambiare con il movimento fisico o col moderno uomo-bambino sempre indaffarato e perciò incapace di creare) e non la passività, verso l’unione e non la separazione, perché ciò che all’inizio è separato alla fine si deve unire.
In cammino verso di noi
Poiché noi tutti siamo già mondi, e vivamo a galla di un network di alterità. Parafrasando Giovanni, possiamo dire che, come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche l’uomo non può fruttare se non rimane entro l’uomo. Quando questo avviene, ecco giungere la gioia esemplificata dall’insegnamento di Gesù nel suo ultimo discorso agli apostoli: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”.
In un’epoca “di sabbia”, di “piaceri senza gioia” tali da innescare una reazione a domino di piaceri elettrizzanti e perciò mai pienamente soddisfacenti, è nostro dovere di uomini incamminarci verso di noi e andare alla ricerca con quel sentimento del cercare che, come scrivono Hesse e Agostino, è già in fondo un trovare.
Axel Sintoni