Sui social indossiamo tutti, chi più, chi meno, una maschera al volto. Ed è facile così cambiarsi d’abito tra un post e l’altro, tra un commento e l’altro.
Dopo la diffusione delle prime foto di Silvia Romano e la notizia della sua conversione all’Islam, chi prima indossava le vesti di un virologo esperto, ora senza batter ciglio si è cucito addosso il camice – se esiste – da psicologo esperto di rapimenti e violenze, che somministra senza pagare pegno diagnosi di Sindrome di Stoccolma a qualunque donna sia stata rapita e segregata. Altri preferiscono il camice da ginecologi, e vedono sotto le vesti della Romano una donna incinta e una pancia gravida.
Gli italiani, in questa ottica, si possono poi dividere in silviani – i sostenitori di Silvia – e in cinici anti-silviani, quelli che non vorrebbero aver sborsato neanche un euro e magari rimpiangono anche un regime totalitario, ma sono poi gli stessi che se fosse successo a loro figlia avrebbero fatto carte false pur di riabbracciarla.
A giudicare dai commenti, sparsi sotto i post che parlano di Silvia, entrambi sono però, almeno in molti casi, accomunati dalla straordinaria capacità di affibbiare diagnosi psichiatriche o disturbi psicologici senza nemmeno aver necessità di un consulto con la diretta interessata. Certo, i paladini della libertà usano la Sindrome di Stoccolma come scudo per giustificare i cambiamenti di Silvia. All’opposto, i centellinai della libertà, quelli che guardano al risparmio economico di fronte alla vita umana, usano la Sindrome di Stoccolma per attaccare la scelta di liberare Silvia dal momento che, dicono loro, non è più padrona di sé stessa.
Al di là della sincerità della sua conversione, questo fenomeno ci mostra due cose.
La prima è che c’è una reale difficoltà di guardare l’altro, carpirne la storia e i suoi significati, senza confondere il proprio punto di vista con quello dell’altro. Perché, se vogliamo, è faticoso, quasi doloroso, accorgersi che l’oggettività e la soggettività sono categorie che spesso coincidono, poiché non è possibile, o difficilmente possibile, sganciare la nostra conoscenza e visione del mondo dalla prospettiva soggettiva con cui lo si guarda.
La seconda è che a questa reale incapacità di staccarsi dal proprio punto di vista tentiamo di sopperire, appoggiandoci alla presunta oggettività di etichette diagnostiche, con l’effetto collaterale di patologizzare e iper-medicalizzare ogni caratteristica umana che si discosti dalla norma costruita.
Una citazione attribuita a Kant dice:
“c’è un genere di medici, i medici della mente, che ritengono di aver scoperto una nuova malattia ogni volta che escogitano un nome nuovo”.
Oggi, a quanto pare, questo divertssement patologizzante è molto in voga anche fra gli utenti dei social.
Perché per comprendere e accettare le diversità, sentiamo il bisogno di medicalizzarle? di ricondurle cioè a una materialità biologica o psicologica e da qui tentare di estirparle dall’umano come una spina conficcata in un corpo che non le appartiene?
Le diversità, le differenze che rendono ciascuno di noi unico, sono in realtà il nostro marchio di fabbrica. Proprio perché umani, e non costruiti in serie come i computer, né sterilizzati come provette di laboratorio, sono le nostre storie di vita a restituirci i pensieri, i desideri e l’esperienza, pregna di significato, che abbiamo vissuto e continuiamo a vivere.
Perché poi ci sentiamo costretti a giustificare o denigrare Silvia Romano solo con il supporto – vorrei dire l’invenzione – di una sindrome che rende più accettabili gli elementi di anormalità, nascondendoli sotto una coperta di veltro e moralismo?
Di fronte all’incapacità di comprendere la conversione all’Islam, che a molti sembra far storcere il naso alla faccia della laicità dello Stato, l’unico modo per accettare la novità, senza scadere in facili insulti, è quello di spiegarla solo attraverso meccanismi psichici patologizzati, o un lavaggio del cervello, o un ipnosi dai magici poteri di conversione. Per molti, sembra non sia ammissibile nè pensabile che qualcuno abbia scelto con coscienza di convertirsi e cambiare. Ma se anche questa sua conversione all’Islam fosse soltanto un meccanismo di difesa – termine più in voga fra gli aspiranti psicologi del Web, gli stessi che confondono il parrucchiere o il parroco per psicologo, che fra gli psicologi reali – questo non sarebbe assolutamente di per sé il sintomo di un disturbo mentale. Anzi, i meccanismi di difesa o le cosiddette tecniche di neutralizzazione sono in realtà imprescindibili dalla salute psichica.
Necessari per la psiche come lo è l’acqua per il corpo.
I meccanismi di difesa, ci insegna la psicodinamica, diventano patologici solamente se usati in maniera disfunzionale, non ottimale e in misura massiccia. Tutti noi, quotidianamente, ricorriamo ipse facto all’uso di alcuni meccanismi di difesa per salvaguardarci dall’angoscia e dalla sofferenza. Ma nessuno di noi sognerebbe di darsi da solo del pazzo o del disturbato.
Come diceva Giovanni in Così è la vita, non tutti gli esseri umani di fronte al dolore hanno la stessa reazione. Questa persona è stata prigioniera di aguzzini sconosciuti, per più di un anno in un paese straniero, lontano dai suoi affetti e privata delle sue libertà per davvero, altroché la quarantena di noialtri. Se permettete – Sindrome di Stoccolma o no – avrà quindi tutto il diritto di fronteggiare la situazione come meglio la soddisfa, nel pieno rispetto degli altri. Senza il fastidio di incorrere in formiche digitali che le scorrono addosso e vogliono attaccarle in fronte una diagnosi di disturbo mentale. Delle diagnosi schizo-paranoidi somministrate via Web, nessuno se ne fa nulla. Servono soltanto all’orgoglio insipiente di chi le pronuncia.
Finchè allora non riusciremo a vedere le diversità come un valore – anzichè come spigoli da arrotondare per riportarli al placido ottundimento della conformità – non solo Silvia non sarà mai davvero libera, ma non lo saremo nemmeno noi.
Per tutto questo, ora lasciamo in pace Silvia. Che è finalmente libera di assaporare la libertà e l’affetto dei suoi congiunti e dei suoi familiari. Festeggiamo con lei, semmai. Festeggiamo perché oggi una persona – prima di tutto una persona, un essere umano, al di là della sua nazionalità, fede, sesso, religione, abito e nome – ha riconquistato la libertà che mai doveva esserle tolta.
Axel Sintoni