Il nono giorno di viaggio si parte di nuovo, questa volta diretti ad Hiroshima. La città si trova nella punta orientale dell’isola di Honshu, a circa tre ore di treno da Kyoto. Una volta arrivati, prendiamo il tram per raggiungere l’albergo. I tram cittadini – in parte risalenti almeno ad una trentina di anni prima – sono di una lentezza esasperante, e per coprire distanze anche brevi impiegano almeno una ventina di minuti abbondante. Tuttavia, nonostante qualche scossone, arriviamo in albergo e parcheggiamo le valigie. Non c’è tempo da perdere, resteremo qui solo un giorno e una notte, perciò gambe in spalla. Dopo pranzo quindi ci armiamo della nostra fedele guida e iniziamo a girare per il centro, alla ricerca dell’area del memoriale della bomba atomica.
Seguendo la cartina, arriviamo sulla sponda orientale del fiume Ōta. Quasi senza rendercene conto, ci ritroviamo al fianco dell’edificio simbolo della città, la A-Bomb Dome. L’edificio si trova a circa 160 metri dal punto esatto dell’esplosione, e di esso sono rimasti solo i muri interni. Lo scheletro del palazzo intimorisce e chiede silenziosamente rispetto a nome della città per quanto accaduto quel giorno. I turisti scattano foto sorridenti, quasi a pensare «si, poveracci, mi dispiace, però guarda come viene bene un selfie con la cupola dietro». O forse sono solo prevenuto io nei confronti di chi si fa dei selfie sorridenti davanti a un monumento storico come questo, mentre penso che la temperatura dell’aria – una frazione di secondo dopo l’esplosione – raggiungeva una temperatura di sessanta milioni di gradi (celsius, mica fahrenheit) incenerendo ogni cosa che non fosse pietra. Mentre osservavo l’edificio pensando a questo dato, mi è tornato in mente l’Angelus Novus descritto da Walter Benjamin nelle Tesi di filosofia della storia: «L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso è questa tempesta». Ecco la parola esatta: sanguinario, barbarico progresso. Il progresso della scienza bellica si è abbattuto su Hiroshima senza alcuna pietà quel giorno, sotto forma di onda d’urto alla velocità di tremila metri al secondo.
Dopo qualche minuto ci lasciamo alle spalle l’A-Bomb Dome, dirigendoci verso l’Hiroshima Peace Memorial Park: questo si trova sull’isola di fronte alla cupola, esattamente al centro del fiume e della città. Inoltrandoci al suo interno, la curiosità lascia spazio al magone, che aumenta passo dopo passo.
Immediatamente dopo essere entrati troviamo la Campana della pace, costruita nel 1964, che viene suonata ogni anno durante la cerimonia di commemorazione delle vittime. Alcuni turisti si mettono in posa, facendo altre foto sorridenti mentre suonano la campana. Nonostante i visitatori siano incoraggiati a suonarla, affinché il suo suono possa echeggiare costantemente nel parco, non posso fare a meno di pensare tutto il peggio possibile di quelli che lo fanno sorridendo come ebeti. Poi uno dice che gli sale la svastica.
Accanto alla campana trova spazio il Monumento ai bambini, costituito da una cupola sormontata da una bambina con in mano una gru. Secondo un’antica leggenda giapponese, se si riescono a creare mille origami a forma di gru si può esprimere un desiderio: una bambina sopravvissuta alla bomba, Sadako Sasaki, ammalatasi in seguito di leucemia, cercò di creare le mille gru e chiedere la guarigione, ma purtroppo non riuscì a completarle. I turisti in visita al parco possono lasciare una gru di carta nella grande urna del monumento, per onorare la memoria del suo tentativo. Oltre il monumento si trovano poi la fiamma perenne, che verrà spenta solo con la disattivazione dell’ultimo ordigno atomico al mondo, il cenotafio con i nomi delle oltre duecentomila vittime complessive della bomba e il Museo e Memoriale della Pace di Hiroshima. Non vi sono foto dell’interno del museo: è stata una scelta precisa, per non aggiungere magone al magone. Chi le vuole se le cerchi su Google.
Il Museo è il luogo più significativo dell’intero parco: lungo il percorso espositivo si possono osservare ricostruzioni della città mentre brucia, fotografie raccapriccianti dei sopravvissuti, orrendamente feriti e mutilati, e oggetti quotidiani sopravvissuti all’esplosione (un triciclo parzialmente fuso, un orologio bloccato, vestiti semidistrutti dal calore, giocattoli e molti altri). Guardando le foto si sentono ancora le urla strazianti dei feriti, con la pelle liquefatta dal calore, invocare aiuto. Buona parte del museo raccoglie oggetti di bambini: sorpresi in gran parte mentre aiutavano a demolire le sovrastrutture in legno delle case per ridurre i rischi di incendio, di molti di loro rimasero solo brandelli di vestiti. Spazio trovano anche i poveri oggetti di circa diecimila schiavi coreani, deportati a Hiroshima per lavorare nelle fabbriche belliche della città e che lì trovarono la più orribile delle morti.
Ma l’oggetto che più di ogni altro rimane scolpito nella mente del visitatore è lo scalone d’ingresso della Banca di Hiroshima, esposto nel museo: su di esso si può vedere, ancora, un alone simile ad un’ombra rotonda che copre parzialmente un lato degli scalini. Ebbene, “l’ombra” è quanto è rimasto di una donna che, seduta in quel punto, aspettava l’apertura della banca la mattina del 6 agosto. Finalmente, dopo questo, arriviamo alla fine del percorso espositivo: nonostante la preparazione psicologica, quanto visto nel museo non è una cosa che si possa mandare giù alla leggera. Chiunque lo visiti viene immediatamente trasportato ad Hiroshima subito dopo lo scoppio, tra i quartieri rasi al suolo, nelle tende degli ospedali da campo, di fronte gli scheletri dei pochi edifici in muratura rimasti in piedi, impotente di fronte all’orrore. Orrore che rimane sotto la pelle, insieme a qualche radiazione ancora nell’aria, pronto a venire fuori per ricordare che assassino riesca ad essere l’essere umano quando si impegna.
Osservando gli scalini mi sono chiesto se questa barbarie indiscriminata fosse stata realmente necessaria per far cessare la guerra. Dopotutto i giapponesi erano ormai stati scacciati da tutte le isole del Pacifico, “barricati in casa” e prima o poi avrebbero ceduto. Gli americani hanno sempre giustificato il ricorso alla bomba su Hiroshima e Nagasaki come un “male necessario” per evitare un eccessivo costo di vite umane, sulla base della immediatamente precedente battaglia di Okinawa (dove tutti i giapponesi, circa settantamila, avevano combattuto fino alla morte piuttosto che arrendersi) costata dodicimila e cinquecento morti e trentasettemila feriti statunitensi. Vi è poi anche una spiegazione ufficiosa (avanzata da Gar Alperovitz, docente presso la University of Maryland), che però completerebbe quella ufficiale, ovvero che la bomba, mostrando tutta la potenza bellica raggiunta dagli Stati Uniti, avrebbe fermato l’espansione sovietica nell’area dell’Estremo Oriente. È noto infatti che l’URSS sarebbe entrata in guerra con il Giappone di lì a poco, cosa che quasi sicuramente avrebbe fatto capitolare in breve l’impero del Sol Levante. Per cui, oltre che chiudere la guerra, la bomba sarebbe stato un forte ammonimento a Stalin a stare lontano dal Pacifico (cosa che, in effetti, è accaduta). Tutto questo al modico prezzo di trecentomila civili uccisi tra Hiroshima e Nagasaki. Un affare.
Finita la visita torniamo in albergo, decidendo inconsciamente di non parlare di quanto visto. Il mattino successivo è prevista la partenza per Kanazawa, verso l’ora di pranzo. Decidiamo quindi di fare una breve gita all’isola di Miyajima, nella baia di Hiroshima.
Trenino, traghetto e si arriva: totale, quasi un’oretta di viaggio. Dopo il doloroso ma necessario tour del giorno prima, Miyajima è un’oasi di bellezza rigenerante: la scalata al tempio Toyokuni sulla collina è affrontata in un attimo (va anche detto che la collina è bassa), e possiamo spaziare con lo sguardo dal tempio costruito sul mare sotto di noi all’intera baia. Il profumo del mare è un’iniezione di vitalità, e la visita dell’isola, nonostante i numerosi turisti, procede rapida. Da piccolo paese di pescatori, Miyajima è diventata una tappa turistica obbligata grazie all’armonia tra insediamenti umani e paesaggio naturale creatasi nei secoli: un connubio che crea benessere nei viaggiatori, soprattutto in quelli che arrivano da Hiroshima.
Dopo un’oretta riprendiamo il traghetto verso la terraferma, per ripartire verso la prossima tappa del viaggio. Rotta verso nord, Kanazawa we’re coming.
Fine terza puntata.
Lorenzo Spizzirri