Questo virus è ormai quasi certamente di origine animale, propagatosi a partire dal focolaio del mercato di specie selvatiche di Wuhan. L’ennesimo caso di “zoonosi“, ossia malattie trasmesse fra animali ed essere umano. I primi sospetti concentrati sui pipistrelli e sugli ignoti pangolini, ma poi iniziano a spuntare casi di cani e gatti positivi al nuovo COVID-19.
Sorge quindi il dubbio: coronavirus e animali domestici, che ruolo hanno?
Una delle prime notizie a essersi diffusa, è che l’infezione da COVID-19 – così come altri coronavirus negli anni precedenti – è stata trasmessa all’uomo dagli animali: questa volta, il focolaio sarebbe stato il mercato di specie selvatiche di Wuhan, in Cina. “Zoonosi”, così si indicano le malattie infettive trasmissibili fra animali ed esseri umani. Sorge quindi il dubbio: coronavirus e animali domestici, che ruolo hanno?
In questo caso, i primi sospetti sono ricaduti sui “pangolini” – piccoli mammiferi squamosi di cui prima probabilmente ignoravamo l’esistenza (sono simili a dei formichieri) – eppure questo non ha impedito a folle di padroni, di farsi prendere dal panico, e abbandonare quasi istintivamente i loro gatti e cani, temendo un possibile contagio. Altri invece, rimanendo nell’assurdità delle vicende fra coronavirus e animali domestici – dopo aver usato la scusa della “passeggiatina” con l’amico al guinzaglio per concedersi un po’ d’aria fresca per strada – hanno ritenuto opportuno disinfettarne le zampe con la candeggina: cosa che andrebbe assolutamente evitata, nemmeno se diluita (la soluzione acqua e sapone rimane la migliore, e la più sicura).
Qualche giorno fa però, hanno iniziato a emergere i primi veri e propri casi positivi al COVID-19 fra cani e gatti: un gatto in Belgio, un cane a Honk Kong risultato positivo al tampone. Sono casi isolati, ma che portano a domandarsi che ruolo abbiano gli animali domestici nel contagio.
«Essendo un virus di origine animale, ora torna a infettare gli animali»
– così ha commentato la virologa Ilaria Capua in diretta su Instagram.
Tuttavia, a emergere da questi ultimi – e ancora sporadici, rarissimi – casi di animali domestici infettati dal virus, è proprio la trasmissione padrone-animale anziché il contrario. A questo proposito, emblematica è la frase pronunciata dal professor Canio Buonavoglia, docente di Malattie Infettive al Dipartimento di medicina veterinaria dell’Università di Bari:
«Se siamo positivi trattiamo gli animali di casa come faremmo con i figli: niente carezze, niente contatti».
E a proposito del cane risultato positivo:
«Il cane può avere avuto contatto con il virus ma mi sento di escludere che sia l’’untore’. Probabilmente, in questo caso, dobbiamo dire ‘attenti all’uomo’».
Quindi che siano i nostri animali domestici gli “untori”, vettori che contribuiscono al diffondersi della pandemia, è altamente improbabile. All’Università di Torino comunque, il professor Sergio Rosati – docente di Malattie infettive del Dipartimento di Scienze Veterinarie – insieme alla dottoressa Barbara Colitti, stanno valutando tramite esperimenti, il ruolo effettivo degli animali domestici rispetto al nuovo coronavirus.
La premessa è che finora, il 90% dei coronavirus rilevati nel mondo sembra essere presente nei pipistrelli: con loro vivono però “in equilibrio”, senza provocare loro alcun danno, contrariamente all’essere umano. I pipistrelli sono quindi come dei “serbatoi dei virus”, e anzi, a seguito di uno studio del 2016 in un villaggio dove il contatto fra pipistrelli ed essere umano risultava probabile e frequente, potrebbero addirittura contribuire allo sviluppo di una sorta di anticorpi. La differenza fondamentale però, sta proprio nel tipo di rapporto e di contatto con gli umani: l‘effetto distruttivo del virus attuale, come quello delle pandemie del passato, è collegato alla distruzione e alterazione degli ecosistemi da parte dell’uomo.
Gli animali domestici invece, che rapporto hanno con il virus?
Abbiamo visto i casi di positività nei cani e nei gatti, ma ciò non significa che si siano “ammalati”, con gli stessi sintomi che presenterebbe una persona, né che potrebbero trasmetterci il virus. Il professore chiarisce anzi come gli animali in generale, in questo momento, possano avere un ruolo “epidemiologico” – cioè trasmettere attivamente il virus – oppure essere semplici “trasportatori passivi”: cioè allo stesso modo di una superficie rimasta infetta per lo starnuto, o per la saliva ecc., di un paziente positivo al COVID-19, che poi viene a contatto con un’altra persona tramite occhi/naso/bocca… un po’ come uno scambio di strette di mano. In parole povere, sarebbe opportuno evitare che il malato accarezzi Fido con la mano su cui ha starnutito, se poi qualcun altro dà un bacio all’animale, oppure lo accarezza e poi si porta al viso la stessa mano: è ciò che consiglia tra l’altro l’ENPA (Ente Nazionale Protezione Animali), come “forma di prudenza per la tutela degli animali”.
Secondo i primi risultati delle analisi sugli animali domestici, fra cui il cane positivo a Honk Kong, la carica virale prodottasi e replicatasi nei loro organismi è talmente ridotta da non costituire un rischio di contagio. È per questo che secondo il professor Rosati, sarebbe più preciso parlare di esemplari “contaminati” anziché “infetti”, dato che l’infezione non ha avuto modo di prodursi.
«Nel caso del cane di Hong Kong è più corretto parlare di contaminazione. L’animale è stato contaminato, ma non infettato: è entrato a contatto con cariche infettanti, ma non è detto che si sia infettato».
Nello specifico poi, lo studio che si sta conducendo all’Università di Torino riguarda la reazione del sistema immunitario dei cani e gatti: se la “contaminazione” avviene senza produrre un movimento di anticorpi, allora significa che l’“infezione” è talmente blanda da non coinvolgere nemmeno le difese immunitarie dell’animale, rendendo quindi improbabile anche la possibilità di trasmettere attivamente il virus. Il professore tiene però a precisare che è necessario ancora testare un numero più ampio di animali, raccogliendo il siero di cani e gatti che abbiano vissuto a contatto con delle persone malate (e per questo, si chiede il contributo di chi conosce casi di questo genere, da segnalare all’indirizzo e-mail: [email protected] ).
In sintesi: non è di loro che dovremmo preoccuparci, bensì per loro. È vero che per coloro che si ritrovano in isolamento dopo aver contratto il virus, la compagnia di un cane o di un gatto potrebbe essere – con le opportune precauzioni e distanze – di minimo conforto e consolazione, ma secondo Umberto Agrimi dell’Istituto Superiore di Sanità, “è importante proteggere gli animali di pazienti affetti da COVID-19, limitando la loro esposizione». Per questo associazioni come l’ENPA si stanno offrendo in questo periodo, di prendersi cura degli animali di quei proprietari risultati positivi.
Infine, una piccola nota di speranza che viene dall’Inghilterra: il Cat Hotel nasce in principio come “hotel di lusso” per felini, ma i titolari – dato il momento di particolare emergenza – hanno deciso di mettere a disposizione gratuitamente le stanze dell’hotel, per i gatti di quelle persone che “temono di andare in ospedale”, non sapendo a chi affidare i propri a-mici.
Alice Tarditi