Aldo Moro fu rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978. 55 giorni dopo il suo corpo senza vita di fu ritrovato in via Caetani.
Tempi bui per l’Italia. Erano anni turbolenti e ricchi di contraddizioni. Non a torto si è parlato di lato oscuro del boom, di controstoria e di compromissione delle strutture democratiche. Enrico Belinguer tendeva la mano dalla parte sbagliata della staccionata verso un amico invisibile. Il famigerato compromesso storico non si realizzò mai. I motivi erano tanti, troppi, non ultimo il tragico evento che coinvolse il presidente della Democrazia Cristiana. Una storia durata 55 giorni. Un Paese in ostaggio insieme a uno dei suoi statisti.
Mentre, il 16 marzo 1978, un commando delle Brigate Rosse rapiva l’onorevole Aldo Moro e faceva strage della sua scorta, il Parlamento italiano si apprestava a discutere la sua apertura al Partito Comunista. Dal 1969, con l’attentato terroristico di Piazza Fontana, a Milano, l’Italia era diventata una nazione caratterizzata dagli ordigni esplosivi. Le rivendicazioni sulle stragi erano sempre vaghe e fuorvianti. Aleggiava sulla democrazia lo spettro dello Stato autoritario che alcune frange estremiste attendevano con giubilo.
Come da contratto, essendo l’Italia un Paese appartenente al blocco occidentale, non erano tollerate ideologie comuniste al potere. Per questa ragione, il PCI, il secondo partito nazionale, nonché il più strutturato e possente partito comunista a Ovest, non poteva partecipare al governo. La Democrazia Cristiana, del resto, continuava ad amministrare la vita pubblica italiana dai primi anni del dopoguerra. Anche la DC aveva la sua struttura, i suoi uomini nei punti giusti. Aveva anche un vessillo quasi medievale, una croce rossa su scudo bianco, da contrapporre alle falci e ai martelli proletari.
L’Italia era fatta così, c’era chi raccoglieva i suoi seguaci in chiesa, la domenica, e chi invece preferiva i circoli del dopo lavoro. Don Camillo e Peppone, tuniche e baffi da Stalin. L’eterno confronto tra i due schieramenti sembrava destinato a durare in eterno, e intanto cominciò a circolare quell’espressione quasi mistica: strategia della tensione. Posto un filo, e posti ai due estremi un ex fascista con una gran voglia di rivalsa, possibilmente collegato alle forze dell’ordine, e un comunista massimalista apprezzatore delle buone vecchie purghe di partito e frequentatore di circoli facinorosi, poste queste condizioni, ecco, si immagini quanto potrebbe reggere il filo.
Per grazia divina o per volere del popolo oppresso arrivarono ai vertici degli schieramenti avversi i due uomini di cui sopra. Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. Alla proposta del sardo comunista molti guardavano con sospetto. Non ultimo il divo Giulio Andreotti, che con voce monocroma sosteneva essere il compromesso null’altro che il frutto di una profonda confusione. Di tutt’altre vedute era il presidente del partito Aldo Moro. Era tempo di abbandonare le asce di guerra e, in un momento tanto critico, risorgere uniti, anche se dalla parti opposte della staccionata. Berlinguer, dal canto suo, lo diceva di continuo che il suo partito non era come quello russo, e Moro ci credeva, davvero.
A dirla tutta, nemmeno dalle parti del sardo comunista si respirava aria di cordialità. La fazione più a sinistra del partito mal vedeva la possibile alleanza con i nemici giurati. C’era poi quel Bettino Craxi che tanto rumoreggiava perché il suo piccolo PSI sarebbe andato incontro a fine certa, schiacciato dai due giganti. Eppure anche Berlinguer ci credeva, e sembrava cosa fatta, fino al 16 marzo 1978.
Quando avvenne il fatto, quando il presidente Aldo Moro fu rapito, l’Italia intera restò paralizzata. Molti negozi abbassarono le saracinesche. Molte scuole chiusero i battenti. Molti studenti si riunirono in assembramenti spontanei. La programmazione televisiva nazionale si occupò notte e giorno del caso Moro, delle possibili evoluzioni del rapimento, delle identità dei brigatisti che avevano rivendicato con una chiamata all’ANSA la paternità del delitto. Ogni tanto venivano resi noti i comunicati delle Brigate Rosse. I rapitori avevano imbastito un processo, e l’imputato era proprio lui: Aldo Moro.
Come sappiamo la vicenda finì male, 55 giorni dopo. Il corpo senza vita di Moro fu ritrovato in via Caetani il 9 maggio 1978. Durante tutto il periodo della prigionia di Aldo Moro il governo e le istituzioni italiane scelsero la linea dura. Non si scese mai a patti con i terroristi che chiedevano, in cambio della liberazione dell’ostaggio, la scarcerazione di alcuni compagni brigatisti. Il caso è così denso di misteri che continua a rimanere oscuro ancora oggi. Ci sono le lettere dalla prigionia di Moro, dalle quali Andreotti non verrebbe fuori immacolato. Ci sono le coincidenze logistiche che hanno permesso il rapimento del presidente praticamente a pochi passi dal Parlamento. Ci sono una serie di ipotesi mai verificate sui vari nascondigli in cui Moro sarebbe stato tenuto. C’è, soprattutto, una storia tutta segreta su quella valigetta che Aldo Moro portava con sé. Era piena di carte di cui non si sa più nulla.
Negli anni il racconto incompleto, il caso irrisolto, ha stimolato negli italiani le più fantasiose ricostruzioni. Articoli e romanzi hanno provato a dare una logica ai punti deboli della storia. I film l’hanno stravolta e ricreata, come Buongiorno Notte di Bellocchio. Un grande trauma collettivo ha assunto i contorni del giallo fino a diventare un caposaldo delle teorie del complotto. Del resto i presupposti c’erano tutti. Un uomo importante e in procinto di realizzare il più improbabile dei compromessi politici. Una nazione percorsa da atti terroristici senza mandanti. Due forze politiche diametralmente opposte a governare il mondo intero. Intere squadre di spie internazionali responsabili dei golpe di stato nei paesi sud americani. Tutto poteva connettersi, tutto poteva essere.
Paolo Onnis