“I cronisti siciliani ricordano i colleghi vilmente uccisi per mano mafiosa.”
Palermo. Il Gruppo Siciliano dell’Unione Cronisti ha favorito l’inaugurazione di una targa, posta nella sede dell’Associazione Siciliana della Stampa, in memoria di otto importanti giornalisti uccisi dalla mafia in Sicilia. L’insegna recita la seguente: “I cronisti siciliani ricordano i colleghi vilmente uccisi per mano mafiosa.”
I famigliari delle vittime hanno assistito alla riunione. Leone Zingales, uno dei principali promotori dell’iniziativa, ha chiarito che la data non è stata scelta casualmente: “Il 6 marzo del ’42 è la data di nascita di Mauro Rostagno, ucciso nell’88 all’età di quarantasei anni.”
Il giorno precedente è stata inaugurata una sala stampa a Palazzo D’Orleans in omaggio a Giuseppe Alfano, rievocato dal governatore della Sicilia Nello Musumeci come “uomo, marito e padre straordinario.”
In virtù degli eventi menzionati sarebbe opportuno ricordare degli uomini che hanno dato la vita al fine di perseguire la giustizia – gente dalla testa tanto dura da continuare il proprio lavoro pur essendo consapevole dei rischi correlati. Tali condotte sono modelli d’ispirazione per il presente e per il futuro.
Giuseppe Alfano
Il giovane Beppe Alfano frequentò movimenti politici d’ispirazione neofascista, quali MSI e Ordine Nuovo. Breve parentesi: il Movimento Sociale Italiano si dichiarò erede della Repubblica di Salò, di cui Pier Paolo Pasolini ci regalò un quadro particolarmente esplicativo prendendo spunto dal Marchese De Sade.
Parte dei militanti di Ordine Nuovo fu protagonista del delicato clima degli anni ’70, ovvero gli anni di piombo o della strategia della tensione. Comunque, a prescindere dalle idee e dagli orientamenti politici di ciascun individuo trattato, l’attenzione qui posta concerne il coraggio e la vitalità che caratterizzarono i suddetti – dunque, procediamo.
Fu Alfano a disegnare l’organigramma delle cosche mafiose di Messina e dintorni. La medesima pianta si rivelò utile a contrastare Cosa Nostra negli anni ’90. Il suddetto fu sparato nel ’93 a Barcellona Pozzo di Gotto, all’età di quarantotto anni. Le piste in principio condussero al movente del delitto passionale, sebbene fosse noto che l’uomo scrivesse di mafia, di politica e di corruzione.
Il boss Giuseppe Gullotti fu condannato a scontare trent’anni di carcere, accusato d’aver organizzato l’omicidio Alfano. I mandanti non sono mai stati individuati, specie per via della carenza di indagini e di perizie balistiche. Comunque, gli ultimi appunti del giornalista parlarono di mafia e di massoneria.
Gullotti di recente ha chiesto la revisione del processo; l’udienza successiva è fissata per il 20 marzo.
Cosimo Cristina
Tra gli anni ’40 e gli anni ’50 il partito della Democrazia Cristiana sosteneva che la mafia fosse stata inventata dai comunisti; malgrado ciò il giovane Cosimo Cristina continuò a occuparsi del fenomeno a priori, sebbene venisse ricompensato più o meno miseramente.
Il suddetto, tra l’altro, si occupò della vicenda dei monaci di Mazzarino – accusati di omicidio, estorsioni, violenze private e associazione per delinquere. Il suo corpo fu trovato nel ’60 nei pressi di Termini Imerese: il cadavere teneva due biglietti in tasca, di cui uno per l’amico e l’altro per la fidanzata. Per la giustizia italiana, Cristina è morto suicida; in tutto ciò non sono mai state eseguite perizie calligrafiche né autopsie.
L’Ora di Palermo all’epoca dichiarò: “Il corpo, perfettamente integro, con solo un’evidente ferita alla nuca e nessuna frattura, era alquanto incompatibile con qualsiasi corpo colpito da un treno in corsa o finito sotto le rotaie.”
Mauro De Mauro
Il giovane Mauro De Mauro aderì alla Repubblica di Salò di Junio Valerio Borghese – lo stesso individuo che negli anni ’70 azzarderà un colpo di Stato, prima di annullarlo lui stesso in corso d’esecuzione. Comunque, De Mauro si arruolò come volontario nella seconda guerra mondiale e operò nelle SS (organizzazione paramilitare della Germania nazista), prima d’esser arrestato con l’accusa di collaborazionismo e messo in un campo di concentramento.
Evaso dal campo e assolto dalle accuse, il suddetto si dedicò al giornalismo a Palermo, entrando in un giornale noto per non avere peli sulla lingua: L’Ora. Silvio Milazzo unì nella redazione soggetti che andarono dal MSI al PCI, intento a sperimentare, sebbene il giornale fosse di orientamento comunista. De Mauro nello stesso periodo abbracciò la sinistra.
Prima d’esser rapito senza essere mai più ritrovato, Francesco Rosi lo incaricò di occuparsi della morte del presidente dell’ENI Enrico Mattei, in virtù del lungometraggio ambito e in seguito realizzato dal regista: “Il Caso Mattei.” Nel mentre il giornalista pubblicò l’elenco della struttura del vertice di Cosa Nostra, fornito dal medico e pentito mafioso Melchiorre Allegra nel ’37.
De Mauro scrisse l’ultimo articolo sulla mafia nel ’69, prima d’esser spostato ambiguamente alla cronaca sportiva. Una volta morto, i carabinieri guidati dal comandante Carlo Alberto dalla Chiesa ipotizzarono che il giornalista avesse rilevato traffici di stupefacenti tra la Sicilia e gli Stati Uniti. La polizia sotto il comando di Boris Giuliano ne associò la morte a una notizia clamorosa relativa al caso Mattei disseppellita dallo stesso De Mauro, il quale non ha avuto il tempo di rivelarla al pubblico.
Tommaso Buscetta negli anni ’80 dichiarò: “Cosa Nostra era stata costretta a perdonare il giornalista perché la sua morte avrebbe destato troppi sospetti, ma alla prima occasione avrebbe pagato anche per quello scoop (la pubblicazione dell’elenco della struttura mafiosa). La sentenza di morte era solo stata temporaneamente sospesa.”
Negli anni successivi, i due pentiti Francesco Di Carlo e Gaspare Mutolo sostennero che De Mauro fosse stato ammazzato per volere degli ambienti di destra, ond’evitare che il giornalista svelasse il colpo di Stato ambito da Junio Valerio Borghese. Nella cornice, gli ambienti mafiosi avrebbero provveduto a disinnescare una simile apprensione. In tutto ciò, il caso De Mauro rimane irrisolto.
Giuseppe Fava
Caporedattore dell’Espresso Sera, Giuseppe Fava si occupava di calcio e di cinema, fino ad intervistare boss mafiosi quali Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo. Nonostante la gente avesse proposto il suddetto per la direzione de La Sicilia, l’editore Mario Ciancio Sanfilippo diede il posto a un altro individuo, poiché Fava non era “facilmente controllabile da chi comandava.”
Il giornale di Ciancio, negli anni a venire, sarebbe stato più volte portato sotto i riflettori. In seguito alla morte di Fava, il figlio dichiarò la seguente:
Ne La Sicilia la parola mafia è usata raramente, solo per riferirla a cronache di altre città, mai a Catania. Nell’82, quando tutti i quotidiani italiani dedicheranno i titoli di testa all’emissione dei mandati di cattura per la strage di via Carini, l’unico giornale a non pubblicare il nome degli incriminati sarà La Sicilia. “Un noto boss,” scriverà il quotidiano di Ciancio. “Nitto Santapaola,” spiegheranno tutti gli altri giornali della nazione.
Claudio Fava continuò:
Il nome del capomafia catanese resterà assente dalle cronache della sua città per molti anni ancora: e se vi comparirà, sarà solo per dare con dovuto risalto la notizia di una sua assoluzione – oppure per ricordarne, con compunto trafiletto, la morte del padre.
Nel 2008 La Sicilia pubblicò una lettera di Vincenzo Santapaola, figlio del noto boss, scritta dal 41 bis. Nel 2018 l’antimafia ha sequestrato il medesimo giornale e confiscato i beni di Ciancio – parentesi chiusa.
Pippo Fava, divenuto direttore del Giornale del Sud, esplicitò il proprio ordinamento ai giovani cronisti assunti: “basarsi sulla verità per realizzare giustizia e difendere la libertà.” Dunque il suddetto cominciò a denunciare il traffico di droga mafioso a Catania; nello stesso periodo non tardarono a candidarsi degli imprenditori quali Gaetano Graci e Salvatore Lo Turco, in seguito scoperti a frequentare Santapaola.
Fava fu licenziato, prima di fondare la rivista I siciliani, nel quale pubblicò l’inchiesta I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa. In essa denunciò le attività illecite degli imprenditori catanesi e del noto criminale Michele Sindona – lo stesso uomo che avrebbe indicato la Banca Rasini di Luigi Berlusconi (padre del Cavaliere) come appoggio di Cosa Nostra per il riciclaggio di denaro sporco.
Uomini vicini alle cosche tentarono di comprare I siciliani al fine di controllarne gli scritti; malgrado ciò, Fava e i propri adepti continuarono a esporre immagini di Santapaola a braccetto con politici, questori e imprenditori. Già dieci anni prima della Trattativa Stato-Mafia il giornalista affermò: “I mafiosi stanno in Parlamento.” Tale dichiarazione in seguito avrebbe fornito carburante alle supposizioni secondo cui sarebbe più opportuno parlare di trattative anziché di trattativa.
Pippo Fava fu sparato a Catania nell’84. In principio le autorità condivisero il movente del delitto passionale, oltre ad attribuire la morte del giornalista alle difficoltà economiche della propria rivista. Il funerale conseguente testimoniò una scarsa partecipazione dei cittadini. Santapaola sarà condannato all’ergastolo soltanto nel ’98, assieme agli organizzatori e agli esecutori rilevati. Naturalmente, tutt’oggi rimangono ombre persino in questo caso.
Mario Francese
Mario Francese fu l’unico giornalista a intervistare Ninetta Bagarella, quando si recò al Tribunale di Palermo per dire d’esser soltanto “una donna innamorata.” Il direttore e il caporedattore del Giornale di Sicilia diedero le proprie dimissioni in seguito alle minacce ricevute, mentre Francese continuò coraggiosamente a scrivere per il medesimo giornale.
Il suddetto fu ucciso nel ’79. L’impegno del figlio Giuseppe Francese, in particolare, portò alla condanna di Totò Riina, di Leoluca Bagarella, di Giuseppe Calò e di altri coinvolti nel 2001. Egli si suicidò prima che Bernardo Provenzano venisse condannato all’ergastolo nel 2002.
Giuseppe Impastato
Peppino Impastato nacque in una famiglia legata alla mafia; all’età di quindici anni fu cacciato di casa, avendo brutti rapporti col padre per via delle proprie idee. L’audace picciotto non tardò a darsi da fare: egli aderì al PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria), fondò un giornale e si batté per i diritti della povera gente.
Il suddetto fondò Musica e cultura (un gruppo dedicato ai concerti, ai dibattiti e alle proiezioni cinematografiche) e Radio Aut, nel quale denunciò con vena ironica i mafiosi di Cinisi, tra cui il boss Gaetano Badalamenti. Candidatosi consigliere comunale nella lista Democrazia proletaria, venne ammazzato prima di raggiungere lo scopo nel ’78. Alle elezioni, i cittadini votarono comunque Impastato.
I responsabili tentarono di far passare la morte del giovane trentenne per suicidio; malgrado ciò, il fratello e la madre si batterono per la verità, al punto di allontanarsi definitivamente dai propri parenti mafiosi. In seguito Badalamenti fu condannato all’ergastolo, nello specifico per mano del giudice Rocco Chinnici, ucciso anch’esso. La morte di Peppino Impastato era stata trascurata per del tempo, poiché il giorno medesimo fu trovato il cadavere di Aldo Moro.
Mauro Rostagno
Mauro Rostagno, carismatico leader della contestazione studentesca sessantottina, fu soprannominato il Che di Trento. Svariati giovani, negli anni successivi al periodo storico citato, abbracciarono l’estremismo di sinistra; Renato Curcio e Mara Cagol, amici di Rostagno, fondarono le Brigate Rosse.
Il Che di Trento, dichiaratosi marxista libertario e contrario alla violenza, fondò il movimento Lotta Continua con Adriano Sofri – lo stesso soggetto che sarà condannato per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, in merito alle ambigue vicende successive alla strage di Piazza Fontana.
Rostagno fondò il centro culturale Macondo, punto di riferimento per gli estremisti di sinistra prima che il locale venisse chiuso per spaccio di sostanze stupefacenti, nonostante il suddetto non fosse sicuramente coinvolto. Lo stesso Rostagno ideò il centro di meditazione Saman, in seguito divenuto comunità dedita alla riabilitazione dei tossicodipendenti. L’allora leader socialista Bettino Craxi ammise il proprio apprezzamento per l’iniziativa.
Da giornalista e conduttore di Radio Tele Cine intervistò Paolo Borsellino e Leonardo Sciascia, denunciò la mafia e trasmise il processo relativo all’omicidio del sindaco Vito Lipari, nel quale erano imputati Santapaola e Mariano Agate. Nell’88 Rostagno fu sparato all’età di quarantasei anni.
Solo nel 2014 Vincenzo Virga e Vito Mazzara saranno condannati all’ergastolo per l’omicidio di Rostagno, sebbene in molti ritengano che nella vicenda vi siano state impronte della politica e della massoneria, oltre che della mafia.
Giovanni Spampinato
Prima d’esser ucciso, Giovanni Spampinato si documentò sull’omicidio dell’ingegnere Angelo Tumino, fascista e membro del MSI. Mentre approfondiva i rapporti tra gli ambienti neofascisti e la criminalità organizzata, segnalò la presenza a Ragusa di soggetti ricercati e legati a Junio Valerio Borghese.
Spampinato, in merito al caso Tumino, si persuase del coinvolgimento di Roberto Campria – appassionato di armi, amico dell’ingegnere e figlio di un magistrato. Dunque il giornalista chiese di affidare l’inchiesta ai giudici di un’altra città, tuttavia non venne ascoltato. Campria gli avrebbe sparato poco tempo dopo per poi trascorrere otto anni in un ospedale psichiatrico.
“Ma chi te lo fa fare?”
“Ma chi te lo fa fare?” ripeté la gente a Giovanni Spampinato. Con ogni probabilità han ripetuto la medesima domanda ai colleghi valorosi come lui; uomini scomodi, dalle vite travagliate, dalle idee talvolta discutibili ma pur sempre seri nel mestiere che si sono proposti di perseguire.
Ciò che va apprezzato dei soggetti trattati concerne la volontà di denunciare i fenomeni mafiosi pur non essendone state necessariamente vittime sin dal principio. Al contrario di loro, molti individui trovano il fegato di affermarsi soltanto dopo anni di soprusi e di minacce.
Sono passati quasi trent’anni da quando Giovanni Falcone ha detto una frase giudiziosa, apparentemente utopica, ma in cuor nostro fatidica.
La mafia non è invincibile: è un fatto umano, e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.
Giordano Pulvirenti