“Il più celebre artista sconosciuto”: era così che Ulay si divertiva a definire se stesso.
È buffo come l’ironia con la quale egli guardava lucidamente alla sua vita d’artista sia la stessa che si abbatte con amarezza nell’ora della sua morte.
Quando la stampa della Lubiana diffonde lunedì 2 marzo l’annuncio della morte di Ulay, molti sono gli articoli che si susseguono per diffondere la notizia e dare l’addio al maestro. Tuttavia, addirittura sin dal titolo della maggior parte dei pezzi, sembra che il nome di Ulay sia impossibile da scindere da quello della più famosa Marina.
“Morto Ulay, compagno dell’artista…”, “Lutto: Ulay, storico compagno di…”, “Addio ad Ulay, tormento e amore di Marina Abramovic”.
Ha fatto la storia la relazione che ha legato i due artisti all’apice delle loro carriere e le performances che hanno visto loro protagonisti sono iconiche e indimenticabili. Ma è giusto leggere l’opera di Ulay all’ombra dell’astro di Marina Abramovic? Non sarebbe più onesto interrogarsi sui chiaroscuri dell’esistenza di Ulay, proprio nell’ora in cui la sua vita si spegne?
Se la dipartita di ogni essere umano genera una frattura tra la scomparsa della persona e la memoria che lascia di sé nel mondo, per gli artisti la sospensione emotiva è ancora più singolare, perché ciò che lasciano è un’arte immortale.
Tante volte è capitato nella storia di riscoprire la grandezza di personalità artistiche solo dopo la loro scomparsa, magari alla fine di una vita vissuta nella povertà e nel dissenso. La storia di Ulay non è ascrivibile a queste esistenze, ma la percezione che avvertiva di sé di essere “sconosciuto” non era sicuramente né frutto di modestia né esercizio di stile.
Di contemporaneità nell’arte si parla convenzionalmente a partire dal secondo conflitto mondiale, ed è nel cuore del secondo dopoguerra che nasce, in Germania, Ulay.
Figlio di un gerarca nazista che lo lascia orfano molto presto, Frank Uwe Laysiepen abbraccia il mondo dell’arte perché insoddisfatto di se stesso prima che della società e della storia del mondo in cui vive. L’autoanalisi dei tedeschi all’indomani della guerra e il rigetto dei propri padri da parte della nuova generazione è il sostrato dal quale sorge l’inquietudine di un animo come quello di Ulay.
Sono gli anni settanta, e l’artista rinnega il proprio nome di battesimo e indaga il tema del doppio sfruttando lo strumento offertogli dalla Polaroid, grazie alla quale esplora i territori della fotografia artistica.
Gli scatti della mostra Renais sense del ’74 ritraggono per lo più l’artista stesso, il suo irrequieto scandaglio dell’identità umana attraverso la ricerca dell’altro da sé dentro di sé. Con il volto per metà meticolosamente truccato da donna e per metà no, giocando col corpo e col travestimento, Ulay sfrutta l’androgino per far dialogare maschile e femminile e porta i capelli lunghi da un lato e rasati dall’altro. Il confronto tra due archetipi opposti si scorge ancora in Fototot, esibizione di un paio d’anni successiva, in cui a collidere sono il positivo e il negativo impressi su teli di lino fotosensibile, che registrano il bianco sul nero, la luce nell’ombra.
L’elemento performativo non manca in nessuna di queste opere giovanili, in cui Ulay è sempre coinvolto in prima persona nell’esecuzione, ma l’espressione dei suoi intenti si radicalizza quando il fotografo rinuncia al suo strumento e compie, a tutti gli effetti, un furto.
Il crimine si trasforma in arte: Ulay ruba dalla Neue Nationalgalerie di Berlino quello che si diceva essere il dipinto preferito di Adolf Hitler, “Der Arme Poet” di Carl Spitzweg. Lo porta via con sé, in un quartiere poverissimo, a Kreuzberg, un ghetto di immigrati. La tela rappresentava, a detta di Ulay, “una specie di icona identitaria per la Germania” e trasferirla nel salotto di una famiglia di turchi significava risemantizzarla alla luce degli eventi storici dell’immediato presente.
La performance, intitolata There’s a criminal tuch to Art, terminò con la telefonata di Ulay al direttore del museo perché andasse a recuperare l’opera trafugata presso la famiglia di immigrati, il tutto sotto lo sguardo di una telecamera che riprendeva gelida le reazioni dei partecipanti.
Questa fu l’ultima performance firmata da Ulay da solo; poi l’incontro con Marina Abramovic.
Nell’intervista Under my skin, Ulay ricorda il primo momento in cui si sono sfiorati. Dopo la performance di lei, Thomas Lips, in cui l’artista esplorava i limiti fisici del proprio corpo e della mente arrivando ad atti di autolesionismo, Ulay prese dello iodio e altri disinfettanti e le si avvicinò per curarle le ferite. Da quel primo tocco, l’energia creativa che furono in grado di sprigionare i due geni fu incontenibile e le performances insieme vivevano della tensione del loro grande amore. Un amore che li univa nella vita e nell’arte.
Marina e Ulay si sono messi a nudo, schiaffeggiati, hanno infranto ogni convenzione sociale per vivere liberi, senza alcuna progettualità, viaggiando su una Citroën nera privi di meta. Ma tanto più la loro arte raggiungeva vette altissime, tanto più, paradossalmente, la loro relazione d’amore si sgretolava.
Eppure, anche la fine del sentimento andava celebrata. The Lovers: the great wall walk è l’ultima performance dei due artisti. Marina e Ulay partono da due poli opposti della muraglia cinese per incontrarsi e dirsi addio nel centro esatto. Quando le due strade di queste divinità dell’arte si separano, Marina consolida il suo essere la “nonna dell’arte performativa” e Ulay si guarda dentro e ritorna alla fotografia.
Gli ultimi progetti dell’artista sono scatti di grande formato.
La monumentalità dell’arte ricreata si contrappone alle dimensioni delle performances, che si svolgono nel solo spazio del suo studio. Quasi a chiudere il cerchio della sua carriera, Ulay recupera davvero le origini della sua ricerca e in Anagrammatic Bodies, nel 2015, ritorna sul tema dell’identità e dell’ibrido. L’autore confonde se stesso negli altri, e ricompone profili che sono il risultato di autoscatti del proprio volto e del corpo mescolati con foto di altri soggetti. L’io sprofonda in sé, per ritrovarsi nell’altro e scoprirsi Universo.
All’improvviso, a Ulay viene diagnosticato un cancro. Silenziosa, la morte sopraggiunge dopo una vita acuta e intensa, e scrive un punto al termine di una storia di difficile lettura, complicata da decifrare. Quando a Marina Abramovic fu chiesto se avesse mai avuto paura di morire durante le sue esibizioni, lei aveva risposto: “Okay muoio. E allora? La vita è un sogno e la morte è un risveglio”.
Sarà un risveglio anche per un maestro come Ulay, che con la morte consacra la sua appartenenza al pantheon degli artisti dell’arte performativa e la cui carriera è oggi ristudiata in memoria della sua scomparsa.
Martina Dalessandro