Si fanno 93 milioni di selfie al giorno. Oltre 1000 al secondo. Un esercito, direbbe qualcuno. Ma ci siamo mai chiesti perché lo facciamo?
Prima di fare un analisi accurata da un punto di vista sociologico, è utile citare un caso che ha dell’incredibile. Così, tanto per ricordarci cosa stiamo diventando (o siamo diventati?).
Un papà sviene in sala parto e la neomamma scatta una foto con il suo viso in primo piano e sullo sfondo il marito a terra attorniato dai medici. Con il sorrisone come a dire “dovrebbero stare dietro a me i medici, e invece…”. Al di là dell’ironia, di cui non si discute, viene da chiedersi: ma a questa mamma che dopo ore di travaglio, dolori da parto, sforzo finale annesso, la gioia del momento di aver dato alla luce il suo bambino che forse è appoggiato sul petto, come le viene in mente di prendere il telefono (si spera che sia almeno del marito e non suo) e scattare una foto? La situazione sfiora la patologia.
Si possono ricordare anche tutte quelle situazioni pericolose consapevolmente cercate per trovare il selfie perfetto, e spesso finite tragicamente. Di questi giorni è l’inchiesta fatta da alcune Università per conto della Polizia di Stato su giovani e selfie. Si chiama “Daredevil selfie”, il selfie in cui si rischia la vita: uno studente su tre dichiara di averci provato.
Apparire per esistere
Gli esperti parlano di una vera e propria dipendenza. Proviamo a spiegare il significato di questo istinto incontrollabile di farsi selfie sempre e ovunque.
Oggi più che mai viviamo in una società dello spettacolo, con i social network assistiamo a una spettacolarizzazione della nostra vita, alla voglia irrefrenabile di mostrare ciò che facciamo e ciò che siamo: ma non quello che siamo veramente, bensì solo quello che vogliamo mostrare di noi stessi. E qui sta il punto. Oggi esistiamo solo se appariamo. O almeno questo è quello di cui ci siamo convinti tutti. Riconosciamo noi stessi solo attraverso lo sguardo dell’altro, e questo rappresenta una sorta di insicurezza assimilabile a patologie quali anoressia e bulimia, dicono gli psicologi.
La società dello spettacolo
L’apparire è l’essenza della società dello spettacolo. Le apparenze, il modo in cui le persone appaiono, sono il medium dei loro rapporti sociali. Il sociologo Goffman ha dimostrato la teoria della rappresentazione sociale studiando la routine di una piccola isola, la comunità che molti hanno contrapposto alla società moderna caratterizzata da alienazione e apparenza.
L’idea che la società assomigli a un teatro e ognuno di noi reciti una parte su un palcoscenico è antica, già William Shakespeare ne scrisse. La vita sociale è una commedia e gli uomini indossano una maschera per gestire le relazioni sociali. Sempre Goffman parla di maschere che cambiano a seconda del contesto e degli interlocutori. Senza maschera (apparenza) non potrebbe esserci alcuna comunicazione. Quindi le apparenze sono le condizioni fisiologiche dell’esistenza della socialità. Autorappresentazione: essere vivi significa essere posseduti da un impulso di autoesibizione. Quanto sono attuali queste tesi sociologiche.
Mostrare solo ciò che vogliamo
L’apparenza sociale mostra un aspetto e allo stesso tempo ne ricopre altri. Come in un selfie, mostriamo il sorriso perfetto, l’acconciatura perfetta, il paesaggio perfetto, nascondendo tutto quello che non ci piace o che compromette la perfezione di quello spazio in quello specifico momento. Ovviamente questo impatta anche sul concetto di estetica che viene distorta, come nella pubblicità dove ogni cosa viene mostrata filtrata. E si confonde il selfie con la realtà. I dati dicono che i Millenials sono la prima generazione cresciuta con la tecnologia e con i selfie che si rivolge alla medicina estetica”.
L’attualità degli studi di Hanna Arendt
Anche la politologa tedesca Hanna Arendt offre diversi spunti di riflessione. La filosofa analizza il rapporto tra lo spazio pubblico e la sfera privata dell’uomo in riferimento alla polis greca: facendo una distinzione ammette l’esistenza di una sfera “costruita” diversa da noi stessi. Nella sua opera incompiuta e pubblicata postuma “La vita della mente”, analizza il concetto di piacere. “Esistono anche scelte non ispirate dal nostro ambiente: vi siamo indotti dal desiderio di piacere a noi stessi o di stabilire un esempio, cioè dal desiderio di persuadere gli altri ad apprezzare ciò che piace a noi”. Questo potrebbe essere un meccanismo che si innesta inconsciamente quando facciamo un selfie.
Continua la Arendt. “Siccome le apparenze si presentano sempre nelle vesti del parere, simulazione e inganno intenzionale da parte dell’attore, errore ed illusione da parte dello spettatore figurano, inevitabilmente, tra le loro intrinseche potenzialità. L’autopresentazione si distingue dall’autoesibizione grazie alla scelta attiva e consapevole dell’immagine mostrata: l’esibirsi non ha altra scelta che mostrare tutte le proprietà in possesso di un essere vivente”. E qui entra in campo il concetto di accettazione sociale. La perfezione ricercata (anche con l’inganno, non solo “ottico” ma sostanziale) è finalizzata all’accettazione: come si fa a non piacere in un contesto che si è reso assolutamente piacevole in ogni suo dettaglio?
E la politologia conclude: “La prova che rivela l’ipocrita è l’antico motto socratico Sii quale desideri apparire, che significa appari sempre come desideri apparire agli altri anche se ti capita di esser solo e di non apparire che a te stesso”. Come in un selfie. Anche se non ti guarderà nessuno, l’importante è avere l’illusione di essere visto dagli altri nel modo in cui vuoi apparire.
Marta Fresolone
Gentile Marta, ho avuto modo in questi giorni di leggere un suo articolo intitolato Analisi sociologica del selfie… del 28 Febbraio e postato su Orizzonti di Ultima voce. A tale proposito, lei cita Hannah Arendt: Autorappresentazione: essere vivi significa essere posseduti da un impulso di autoesibizione, e poi aggiunge: Quanto sono attuali queste tesi sociologiche. Avendo certamente letto Vita della mente o conoscendo il pensiero stesso dell’autrice in questione, lei saprà cosa pensava Arendt, a torto o a ragione, di tutte quelle “scienze che più direttamente si occupano degli uomini”, ovvero, che ” interpretano tutte le apparenze come funzioni del processo vitale (funzionalismo)”. In più, bisognerebbe continuare la frase citata che così termina: … autoesibizione, che corrisponde in ognuno al dato di fatto del proprio apparire. Ciò è fondamentale per inserire la questione nei termini giusti così come sono stati posti dall’autrice stessa. Nella prima parte del volume sul pensare e nel capitolo primo dedicato all’apparenza, quest’ultima viene discussa e vista come l’evento primordiale, legato al nostro apparire e scomparire, quindi, fuori e prima di ogni analisi sociologica o psicologica. Continuando col suo articolo… Oggi esistiamo solo se appariamo… riconosciamo noi stessi solo attraverso lo sguardo dell’altro, e questo rappresenta una sorta di insicurezza… In realtà, sempre in Hannah Arendt, la nostra esistenza è strettamente legata all’apparire. In questo mondo, afferma l’autrice, essere e apparire coincidono, mentre la certezza della nostra esistenza ci è data proprio dal fatto che gli altri ci vedono, ci toccano, ci ascoltano. Che poi mostriamo ciò che vogliamo mostrare, questo fa parte della possibilità che abbiamo di scegliere, in quanto non siamo solo mere apparenze, o solo spettatori, ma anche attori nel teatro del mondo. Tuttavia, prosegue la filosofa, “L’ipocrita non è un malvagio che si compiace del vizio e nasconde il suo compiacimento a chi lo circonda”, e il detto, secondo il quale “L’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù” non è del tutto vero. In sostanza, per argomentare gli aspetti richiamati in Analisi sociologica… v’è un’altra prospettiva che allargherebbe l’orizzonte dei temi affrontati. Hannah punta a trattare il tema delle “attività spirituali in virtù delle quali ci distinguiamo dalle altre specie animali”, e solo a questo proposito, il “primato dell’apparenza” diventa l’argomento principe per la domanda vera: “Il pensiero e le altre attività invisibili e silenziose della mente sono destinate ad apparire o di fatto esse non possono trovare mai dimora adeguata nel mondo?” E questa domanda è, a sua volta, legata strettamente al problema se la nostra facoltà di distinguere il bene dal male sia legata con la nostra facoltà del pensiero.
Alba