La puntata pilota della stagione iniziale di Sailor Moon veniva trasmessa in Italia per la prima volta il 21 febbraio del 1995. Da quel giorno la vita di molte bambine è cambiata per sempre: l’appuntamento quotidiano con la paladina che veste alla marinara diventava un momento irrinunciabile della giornata, necessario non solo per rimanere al passo con la storia, ma anche per essere aggiornati e condividere, l’indomani a scuola con le amiche, le teorie sugli sviluppi futuri della trama.
L’attenzione di intere generazioni è stata completamente catalizzata dalle guerriere Sailor, evidentemente la proposta più coinvolgente tra le alternative dei cartoni animati in TV. Con la sua narrazione capace di combinare avventura e fantascienza senza dimenticare di soffermarsi sui rapporti di amicizia e amore che si sviluppavano tra i personaggi, Sailor Moon ha forgiato l’animo di tantissime bambine che oggi, non più così piccole, conservano il ricordo delle imprese della loro paladina faticando a contenere, per pudore e imbarazzo, lo stesso entusiasmo che le animava da piccole. È dunque affidandomi al potere infallibile del cristallo di luna che tento, in questo momento, di giustificare razionalmente le ragioni di un tale ardore.
Una trama tutt’altro che banale
Il target a cui sono destinati i manga in Giappone è più adulto rispetto a quello della relativa trasposizione occidentale; l’estetica del cartone animato ha, infatti, in Italia un mercato che interessa esclusivamente i bambini, ai quali gli anime iniziarono ad essere proposti dalla seconda metà degli anni settanta, con qualche ragionevole modifica, ma sostanzialmente nel rispetto della trama originale.
La vicenda che interessava Sailor Moon era infatti tutt’altro che banale: il manga a fumetti dal quale era tratto il cartone animato appartiene al sottogenere majokko, letteralmente traducibile come “streghetta”, che fonde elementi fantasy o fantascientifici con temi romantici, sentimentali e talvolta comici. L’imbranata Bunny si presentava come una studentessa dall’esistenza in tutto e per tutto normale, finché l’incontro con la gatta randagia Luna non diventava dirimente per l’esplorazione della missione che la vedeva protagonista.
Da scolaretta, la ragazza si scopriva dapprima una guerriera Sailor in lotta contro mostruosi nemici, poi la proiezione nel futuro della principessa Serenity, erede al trono di un pianeta che per non soccombere nella lotta contro il male si era immolato per permettere la rinascita dell’universo in tempi più felici. Le rivelazioni distopiche della storia avevano naturalmente conseguenze importanti in termini di reincarnazioni delle guerriere, ritrovamenti tra i personaggi nei nuovi spazi temporali, e amnesie dovute allo shock delle trasformazioni che complicavano il quadro.
Il restare al passo con una trama di tale complessità richiedeva ad ogni bambina uno sforzo di attenzione e un’elasticità mentale da vere paladine della galassia. Chissà che non si debba anche a quell’allenamento quotidiano lo sviluppo positivo delle giovani menti nel cammino per diventare persone migliori.
LGBT e femminismo
Ce lo chiedevamo tutte almeno una volta ogni due episodi: Milord quando serviva dove si perdeva? Marzio ci avrà messo il doppio del tempo di Bunny a capire che Milord non era altri che se stesso e, anche una volta presa coscienza della missione alla quale era stato chiamato, diciamo che con quelle rose rosse il contributo prestato alla causa era un po’ flebile.
L’universo raccontato in Sailor Moon era evidentemente a conduzione femminile: era retto da una sovrana il regno dell’universo perduto, la salvezza del mondo spettava ad un gruppo di guerriere Sailor e tutte le donne, a prescindere dall’età, avevano un ruolo cruciale e non marginale nello sviluppo degli eventi. Sailor Moon e le sue compagne erano dotate di un arsenale di scettri e accessori che costituivano un armamentario assolutamente completo al quale si aggiungevano trasformazioni elegantissime.
Le protagoniste della storia avevano tutte caratteri forti, determinati, rappresentavano modelli femminili diversi tra loro ma ciascuno ugualmente caratterizzato nel dettaglio, al punto che non era scontata l’identificazione con Sailor Moon, ma tutte le guerriere Sailor potevano essere prese come esempio dalle piccole spettatrici, che si immedesimavano nell’una o nell’altra a seconda delle affinità che ritrovavano con il personaggio. La complicità tra le amiche, narrata senza alcun tipo di competizione, illustrava, inoltre, una dinamica di gruppo in cui l’armonia trionfava sulle criticità e le differenze tra le ragazze erano elementi cruciali per la valorizzazione delle peculiarità di ciascuna.
Con la stessa naturalezza con la quale si finiva spontaneamente per assorbire gli ideali femministi proiettati dal cartone, senza alcun tipo di sovrastruttura o pregiudizio, la trama comprendeva la presenza di due guerriere, Sailor Uranus e Sailor Nettuno, che, nonostante l’azione italiana della censura, erano evidentemente una coppia di fatto. Al tutto si aggiungeva anche una triade di paladine, le Sailor Seya, che sulla terra avevano fattezze maschili, suonavano in una boy band, ma nella trasformazione diventavano tre bellissime amazzoni.
La pluralità umana rappresentata nelle puntate di Sailor Moon anticipava di anni il dibattito sul genere e la sessualità. Il candore col quale il telespettatore non faceva per nulla caso a questi elementi del racconto rimane, ancora oggi, una chiara risposta a tante sterili polemiche contro la libertà di espressione e le rivendicazioni a cui ha pieno diritto il movimento LGBT.
Omnia munda mundis, tutto è candido agli occhi dei puri.
Nostalgia, nostalgia canaglia
In un’intervista di un paio di anni fa, Cristina D’Avena ha raccontato dello stupore provato durante un concerto in cui cantava le sigle di cartoni animati, quando ha visto in prima fila un ragazzo punk completamente ricoperto di tatuaggi e piercing. Il dubbio che il giovane fosse finito chissà come al concerto sbagliato era stato fugato dalla commozione che poi lo aveva colto al momento dell’ascolto di Memole, dolce Memole. Raggiunta la cantante in camerino, il ragazzo aveva raccontato di come quella sigla gli venisse cantata dalla nonna quando era piccolo e di come quel ricordo fosse per lui prezioso e caro.
Tutti hanno avuto un’infanzia e tornare a visitare con la memoria luoghi del passato nei quali è recuperabile ancora dolcezza e pace è un’abitudine alla quale diventa difficile rinunciare, soprattutto quando il presente non è così generoso nell’offrire conforto davanti alle problematiche che quotidianamente si possono presentare. Che si tratti di una forma lieve di quella che comunemente si definisce “sindrome di Peter Pan” o semplice saudade, esiste un gruppo nutrito di nostalgici al quale si rivolge una fetta dell’industria del mercato.
Tanto serie tv come Stranger Things, che recuperano le estetiche degli anni ’80 per gli adolescenti di allora e non solo, tanto le mode sempre nuove ma allo stesso tempo cicliche, sono tese verso tutti coloro che, non riconoscendosi nei nuovi modelli, cercano accoglienza tra le braccia del passato. Una testimonianza di quanto Sailor Moon sia stata, ma rimanga ancora, un baluardo per molti è la recente acquisizione del suo logo da parte di famosi brand di abbigliamento, che strizzano l’occhio a chi non ha potuto dimenticare i pomeriggi passati a guardare il cartone ed è pronto a sfoggiare con orgoglio un passato di cui non ha vergogna.
Da piccole sognavamo di essere forti, potenti, delle “salvatrici” come le guerriere Sailor; oggi, forse, ci basterebbe assomigliare di più alle bambine che eravamo, imparare da loro la capacità di credere in noi stesse e di desiderare in grande, di avere fede nella forza che abbiamo di combattere il male e salvare il mondo e, con lui, anche noi stesse.
Martina Dalessandro