Da decenni, o forse dall’introduzione del televisore domestico alla portata conviviale di ogni famiglia, in molti si sono trasformati in passivi uditori e spettatori di un turpe teatrino messo in scena sullo schermo come in radio sotto forma di un rito religioso votato all’ideale dell’audience.
Caroselli di casi umani disperatissimi, colonne sonore di sottofondo geriatrico in interminabili pomeriggi passati sul divano, approfondimenti insulsi sullo squallore di una casa protetta dal bisogno siderale di fama e successo, come è quella del Grande Fratello. Sono i compagni di molti italiani alle prese con quello che Pasolini, in una celebre intervista, definiva “medium di massa che mercifica e alienizza gli individui” : la televisione. Quella che si nutre di statistica, audience, gossip e finte persone scomparse come il recente caso di Luigi Favoloso nel salotto di Barbara D’Urso.
In quelli che invece non si accontentano di essere orecchie e bocche passive di inutili squittii fondati sulla chiacchiera volatile cresce il malcontento e l’astio nei confronti della televisione di massa. O, in generale, verso tutto ciò che è main-streaming. Dai libri al cinema fino alla musica.
Questo ribrezzo nei confronti della cultura di massa può tradursi in un odio indiscriminato di tutto ciò che ha successo. Frasi del tipo “non lo vado a vedere perché l’han visto tutti”, “non lo leggo perché è nella top ten delle vendite”, “non lo ascolto perché passa in radio tutti i giorni” galleggiano sul liquido rarefatto di frustrazioni e snobismi intellettualoidi. Ma, occorre dirlo qui come altrove, riprendiamoci la libertà di pensare e asserire che il successo non garantisce nessuna qualità particolare. Che il successo semmai dovesse premiare qualcuno premia il banale, il mediocre, il conformismo. E non certo – o mica sempre – il capolavoro indiscusso. Ricordiamoci di quante magnifiche opere letterarie, musicali, artistiche siano state parcheggiate nell’oblio dell’underground per essere riscoperte solo successivamente. Oppure di quanti artisti non abbiano vissuto abbastanza per poter sgranocchiare in santa pace il frutto dell’ambito successo.
Il successo plebiscitario: un’operazione di smussamento
Affinché un’opera sia di massa serve smussare gli angoli delle differenze e agguantare i pochi spigoli in comune tra il professore di Milano e la casalinga di Voghera. Renderli circoscritti in unico poligono. Quello dell’universale desiderio di “sentirsi uniti nella lotta” che tiene vivi.
È cosi allora, sotto l’anelito all’unione che il mediocre, retorico conformismo viene scambiato per novità e travestito da originalità. Anche se, come ci insegna lo psicanalista inglese Winnicott, nessuno può dirsi veramente originale dall’ambiente che lo ha contenuto. Ma qui si parla di un conformismo creativo come di un manieristico intento a voler consumare la fiamma delle Muse senza produrre cenere, senza una leggera dose di abrasione della candela. E si produce così, in scala industriale, l’arte nel rifugio dorato di cover e imitazioni in cui nulla stupisce e stravolge, ma tutto viene reso dozzinale come le biglie dei bambini comprate in tabaccheria.
La mercificazione operata dalla televisione e da internet sulle emozioni ha generato un panorama artistico saturo di imitazioni (X-Factor, Amici, Tu sì che vales, Il cantante mascherato) e depauperato di anticonformismo – vero motore dell’Arte – e di quella poeticità che osserva e mette a fuoco la bellezza mozzafiato di un piccolo, apparentemente insignificante dettaglio.
L’altra faccia del successo: la paura del nuovo
La dama Televisione, scortata dal pudico stalliere domestico che lo segue a ruota ad ogni sua comparsata, conduce l’inconsapevole stuolo degli spettatori alla paura di aprire la mente e ritrovarsi soli in una piazza in cui risuonano voci e parole di uomini e donne artisticamente vivi che lo esortano a disertare quell’esercito devoto alla fama, istrionico e raccapezzante che è l’attuale palcoscenico televisivo consumato dall’ozio.
Inevitabilmente, questo climax di agorafobia psichica colpisce anche il giornalismo, infettandolo con il virus opulente dell’audience elevata ad unico scopo e metro esatto della qualità di un servizio. Ma se prima di Mediaset e Mario Giordano il giornalismo trash rimaneva arginato a un trafiletto nel giornale della scuola, oggi sale alla conquista degli schermi televisivi vedendo centuplicato il proprio bacino di ascolto. Si comincia col dire che “il latino è una lingua morta”, che “con la cultura non si mangia”, che “con la filosofia non si guadagna nulla”, che “in fondo siamo tutti un po’ psicologi” e si finisce per gettare nell’immondizia la Divina Commedia o I Promessi Sposi.
Il vero successo: capirsi l’un l’altro
Tuttavia, non criminalizziamo eccessivamente le persone non dedite alla lettura, all’introspezione o al pensiero critico. Non sono per nulla atti banali. Si fa oggi un gran ciarlare di quanto sia importante mettersi nei panni degli altri. E lo si dice soprattutto quando gli altri sono tanto diversi da noi. Sembra però questo sia rispettato a patto solo che siano lontani e preferibilmente di carnagione più scura della nostra. Perché del tassista, dell’idraulico, del cameriere non importano i gusti e i pensieri. Come notava già il giornalista culturale de La Repubblica Beniamino Placido nel ’93: “non ci passa mai per la testa che quelle trasmissioni possano significare per loro cose diverse che per noi”.
Sì, riprendiamoci allora la libertà di dire che il successo non premia – sempre o per forza di plebiscito – il capolavoro trasversale e toccante. E che semmai ci fosse un metro per misurare la qualità, questo sarebbe la personale sensibilità di ognuno di noi. Che le classifiche sono un mercimonio di emozioni e morali, non una corsa per acciuffare sicuri un’identità. Che l’arte, con il proprio messaggio, è un giardino che va coltivato senza l’ansia del guadagno e il timore della tempesta che smacca.
Nel farlo però ricordiamoci che non è possibile guardarsi sempre “in cagnesco” l’uno con l’altro, che a volte bisogna unirsi anche nei gusti artistici. E tutto sommato Sanremo regala la possibilità di sentirsi unitariamente italiani perchè tesse il filo elettivo tra il critico d’arte e la casalinga di Voghera. È forse questo ciò che fa Sanremo: si paralizzano tutti azzannandosi finché le luci dell’Ariston rimangono accese, per poi tornare come nulla fosse alle loro personali tribolazioni appena i fari si spengono.
Axel Sintoni