Il tempo perduto non torna, o forse si.
“Chi ha tempo, non aspetti tempo”, ma alzi la mano chi non ne ha mai abbastanza. Nell’era del fast (food, fashion, web) sarà mai che l’unica vera ricchezza che ci rimane sia quella scandita dalle lancette che portiamo al polso? E, soprattutto, il tempo perduto può essere in qualche modo recuperato?
La questione è ricca di spunti e può essere osservata da diversi punti di vista.
E le sfilate (appena concluse) del fashion system internazionale, hanno costituito un ottimo palcoscenico di riflessione per i pensatori più seguiti del nostro millennio: gli stilisti e i direttori creativi dei brand multimilionari.
Il Tempo è stato il tema principale scelto da Alessandro Michele e Virgil Abloh nelle rispettive sfilate di Gucci e Louis Vuitton, a Milano e Parigi.
Alessandro ritorna al passato, alla sua infanzia. Ritrova il suo tempo perduto e lo usa come ispirazione per lo show di Milano. Polvere di clessidre sparsa in passerella, inviti scritti da un alter ego, neanche troppo dormiente, di un Alessandro Michele tornato ai primi 5 anni di vita. Perché secondo la mente di casa Gucci tornare indietro nel tempo “è la chiave per ridefinire le cose”.
L’invito alla sfilata di Louis Vuitton alla Paris Fashion Week è invece un orologio da muro brandizzato LV, le cui lancette girano in senso antiorario. Forse metafora e misura delle nostre vite, forse solo l’ennesimo cult piece concepito da mister Abloh. Nel suo show il tempo non esiste, le regole sono sovvertite e soprattutto non costituiscono più un vincolo. L’uomo è posizionato all’interno di una dimensione onirica, senza un futuro. Più che tempo perduto, tempo sprecato. Perché se è vero che anche un orologio rotto segna l’ora giusta due volte al giorno, aspettare 12 ore per avere ragione è un lusso che forse neanche i protagonisti del fashion system possono concedersi.
Prima di loro, infatti, altri “grandi” hanno ampiamente riflettuto sull’argomento.
Anni, mesi, ma forse anche ore e secondi, sono quello su cui i grandi poeti hanno scritto, quello di cui i grandi artisti hanno cantato, e quello che chi ci vuole bene ci ha sempre raccomandato di non sprecare.
“A lungo, mi sono coricato di buon ora” è l’incipit de “Alla ricerca del tempo perduto”, di Marcel Proust.
3742 pagine dedicate alla ricerca del tempo, qualcosa vorranno pur dire (senza nulla togliere ai 10 minuti di sfilata sopra citati). Tempo esteriore e tempo interiore si mescolano tra loro e si supportano a vicenda per recuperare qualcosa che è passato, e attraverso questo, vivere più consapevolmente il presente. Perché il passato non è passato e basta. Rimane vivo nella memoria della logica della ragione o dell’intermittenza del cuore. Secondo Proust ( e secondo i più ottimisti) il passato può infatti essere recuperato, gli attimi possono diventare eterni, e il profumo di una madeleine può invertire le lancette del nostro orologio biologico destando la voce della nostra coscienza.
Attimi, quindi, e intuizioni, a partire dai quali si delineano linee e contorni di un’altra grande opera dedicata all’essenza del tic tac dell’orologio.
Ispirato dall’iper-mollezza del camembert gustato a cena, Dalì nel giro di un paio d’ore, realizza “La persistenza della memoria”.
Più che un quadro, una riflessione sulla relatività del tempo e sull’impossibilità di misurarlo in una maniera oggettivamente uguale per tutti. Tempo perduto, quindi, quello passato a misurarlo.
Ognuno ha i suoi tempi del resto, e la dimensione temporale che si vive dipende dalla volontà di chi ci sta dentro. Direttori creativi, grandi artisti e letterati sembrano, nonostante le differenze, convergere su un punto: indipendentemente dal fatto che torni o meno, godere del tempo che si ha è sicuramente il modo migliore per avere un passato, vivere il presente e guardare al futuro.
Dunque prendiamoci i nostri tempi, ma usiamoli con cura. Perché la memoria rende liberi solo nella misura in cui gli errori di una volta riescono a non trasformarsi negli orrori di una vita.
Emma Calvelli