Visitare un campo di concentramento non è fotografare la torre Eiffel, non è fare i turisti e, soprattutto, non è cosa da improvvisare. Ci sono centinaia di motivi diversi che possono portare una persona a decidere di visitare Auschwitz, Buchenwald o Mauthausen o gli altri campi di sterminio. Se si è fortunati, ad esempio, durante gli anni del liceo, la scuola organizza un viaggio d’istruzione che prevede una giornata in una di queste immense distese di morte. Se si è ancora più fortunati, il viaggio viene preparato studiando nei mesi precedenti il periodo storico del Nazismo. “Ci si prepara”, dicono. Ma non illudetevi: a certe cose non si è mai completamente pronti.
La prima cosa che si nota
Sì, perché quando si entra in un campo di concentramento, quando si superano le cancellate di ingresso, si comincia a realizzare la spropositata megalomania nazista. La prima cosa che colpisce è la grandezza di tutto e la ripetitività di tutto. Baracche tutte uguali, tutte regolari, tutte poste alla stessa millimetrica distanza. Tutto lucidamente pianificato. Le distanze all’interno di un campo sono enormi. Ma è tutto scrupolosamente, dettagliatamente e insensatamente organizzato: ogni baracca ha la sua funzione e ogni funzione ha la sua baracca. Sembra quasi che le idee tayloriste sulla divisione del lavoro siano state applicate anche all’arrivo dei treni e alla suddivisione dei prigionieri. Senza perdite di tempo.
La necessità di una guida
Non importa la vostra età o il vostro livello di istruzione: i campi di concentramento dovrebbero essere visitati con l’aiuto di una guida. Auschwitz, ad esempio, le rende addirittura obbligatorie, soprattutto in estate. Ed è giusto così: oltre a dare un senso logico alla visita e a fornirvi un inquadramento storico generale, le guide vi racconteranno le storie più toccanti di ogni campo. Il rischio, infatti, quando si parla di queste pagine nere della storia, è quello di perdersi nei numeri: 6 milioni di ebrei. Ce la facciamo a immaginare 6 milioni di persone? Il rischio è quello di spersonalizzare, di rifugiarci nei numeri, che ci aiutano a non pensare alle singole storie, alle singole vite e alle singole sofferenze. Le guide, invece, sono formate proprio in questa direzione e, in generale, alcuni campi sono impostati proprio su queste ricostruzioni.
La particolarità di Auschwitz-Birkenau
Auschwitz, ad esempio, è drammaticamente efficace in tutto questo: superata la scritta Arbeit macht frei, la visita inizia in enormi casermoni “tematici”. In ognuno di essi viene affrontato un aspetto particolare del campo. Il punto più duro, forse, è quello delle montagne di oggetti che riescono a comunicare in modo crudo e schietto la spietata pianificazione nazista, unita alla bramosia di accumulazione degli oggetti dei prigionieri. C’è la vetrata da cui si vedono le montagne di capelli, le montagne di occhiali, di protesi per le gambe, di valigie dei prigionieri. Su alcuni oggetti campeggiano anche i nomi dei proprietari, scritti con la speranza di poter tornare a prendere il proprio bagaglio un giorno. Montagne di oggetti, letteralmente. Tutto, però, anche qui: scrupolosamente conservato e suddiviso. Accanto a queste, in una vetrata molto più piccola, le latte di Zyklon B. il pesticida usato nelle camere a gas.
Ogni campo è uguale e diverso
Ma Auschwitz non è il solo campo di sterminio che si possa visitare. Ogni campo ha la sua storia, la sua tragicità e, pur sembrando molto simili nelle strutture e nella ripetitività logistica, in ogni luogo si coglie una sfumatura diversa di questo fenomeno. A Buchenwald, ad esempio, una delle cose che colpisce di più è la scritta sulle cancellate, diversa dagli altri campi. “Jedem das Seine”: a ognuno il suo. Mauthausen, invece, è uno dei più crudi (ammesso che ve ne possano essere di meno crudi) per quel che riguarda le torture inflitte ai prigionieri: si passa dai 186 gradini della “scala della morte” al muro dei paracadutisti. Treblinka, in Polonia, era secondo solo ad Auschwitz per micidialità, ma qui emerge come fosse importante per il Nazismo anche ridurre i costi dell’enorme macchina genocidiaria: a Treblinka non si uccideva con lo Zyklon B, ma con il monossido di carbonio prodotto dai carri armati. Era meno costoso, ma procurava una morte più lenta e dolorosa.
Cosa portarsi a casa
Nessuno sa dire esattamente cosa si prova quando si esce dal campo e si torna a casa. Alcuni si sentono molto, molto stanchi, ma non è per i chilometri percorsi a piedi e forse nemmeno per il caldo o per il freddo. Altri provano un senso di sollievo dall’atmosfera opprimente del campo, appena superano la cancellata di uscita. Altri hanno bisogno di giorni per rielaborare quello che hanno visto e sentito. Alcuni non ci vorranno mai più mettere piede, mentre altri ancora inizieranno a documentarsi e a volerne sapere di più. Di certo, si annienta qualsiasi “ma” e qualsiasi “se” negazionista. Ogni emozione è vissuta anche con il filtro dell’età, della propria formazione e, magari, anche della propria storia famigliare. La visita a un campo di concentramento è però necessaria, perché certe date imparate a scuola si dimenticano, il numero dei morti finisce, ingiustamente, nei cassetti della memoria. In tempi di revisionismi e riscritture della storia, c’è sempre più bisogno di esperienze tangibili per affievolire qualsiasi reinterpretazione in senso riduttivo. Quello che si trova, si vede e si sente nella visita a un campo di concentramento non si può rimuovere come dopo un’interrogazione a scuola.
Elisa Ghidini