Quando la giustizia non è garantita, quando né la legge né lo Stato hanno interesse a proteggere e difendere i propri cittadini, quando i diritti umani e civili vengono messi in dubbio, vivere può diventare un incubo.
Edito da Fazi Editore, “Il diritto di opporsi” è un libro meraviglioso. La sua è una bellezza distruttiva, agghiacciante e terrificante.
Bryan Stevenson è un ‘avvocato statunitense fondatore dell’ EJI, Equal Justise Initiative. Il suo ufficio legale ha combattuto per i diritti dei condannati al braccio della morte; per i minori imputati come adulti; per i malati mentali considerati sani nelle sentenze. Si è battuto per un sistema giudiziario equo e imparziale, libero da pregiudizi razziali.
Il suo libro, lungi dall’essere un romanzo d’evasione, è un testo di denuncia, in cui è palpabile il desiderio di comunicare al mondo l’agghiacciante verità che si cela nelle prigioni e nei tribunali del Sud degli Stati Uniti, che fino al decennio scorso emetteva sentenze disumane, protetto dal silenzio e dall’accondiscendenza del sistema.
Ripercorrendo le fasi della sua carriera, Bryan racconta di alcuni casi che hanno segnato la sua vita. Sono storie molto diverse, così come sono diversi i protagonisti, ma accomunate dallo stesso dolore e dallo stesso strazio, la stessa triste consapevolezza di essere schiavi di un vortice di intolleranza e diffidenza.
Il caso principe è quello di Walter McMillian, un uomo della contea di Monroeville, in Alabama, colpevole unicamente di essere nero. Walter subisce così tante ingiustizie che risulta davvero complicato venire a conoscenza della sua vicenda e restare impassibili. Walter viene incarcerato e condannato al braccio della morte, dove passa ben sei anni della sua vita, rischiando la sedia elettrica, consapevole della sua innocenza. Come può un uomo pensare costantemente alla sua morte, pur essendo senza colpa? Un trauma del genere rimane indelebile. Walter è prigioniero dei risentimenti razzisti, paura e intolleranza l’hanno incarcerato; corruzione e delazione di polizia e tribunali l’hanno condannato a morte.
La storia di Walter non è che una delle tante: Herbert Richardson, veterano in Vietnam, viene condannato a omicidio di primo grado e ammazzato. Nessuna attenuante gli è d’aiuto, né che abbia combattuto per il paese, né che sia stato congedato con onore, né che stesse vivendo con un grave trauma post-bellico. Charlie, un ragazzino di quattordici anni colpevole di aver sparato all’ uomo che picchiava brutalmente la sua mamma, subisce la stessa sentenza di un adulto. Mandato in carcere a vita senza condizionale, diventa la preda sessuale di uomini che abusano più volte di lui. E ancora il caso Trina Garrett, mentalmente instabile a causa dei continui abusi e sofferenze, che viene condannata al carcere a vita perché considerata un’assassina pericolosa. Ian Manuel, un tredicenne incarcerato e lasciato in isolamento per ben diciotto anni colpevole di aver sparato, ma non ucciso, una donna con cui ha poi intrattenuto un copiosa corrispondenza epistolare.
I casi di cui Bryan racconta sono così strazianti da dare la nausea.
Sono tutte storie di miseria umana e violenza, storie di abusi e di traumi così profondi da scavare un solco che lacera l’anima. Non c’è pietà per chi si è perso, non c’è speranza per chi chiede aiuto (a meno che non si parli di gente bianca, soprattutto privilegiati e benestanti). Le persone vengono private dei propri diritti, complice un sistema che garantisce i soprusi anziché la giustizia.
La scrittura lucida e tagliente, a volte sagace e ironica, non fa che accentuare il disgusto e incrementare l’orrore. Bryan è un maestro a mettere in moto le emozioni del lettore, a spiegare con chiarezza quali sono i mostri che ha cercato di sconfiggere, dando continue informazioni sul sistema giuridico americano, sulla sua storia e sulla sua evoluzione.
La linea temporale è distorta, si passa spesso dal caso di Walter ad altre storie, ma il filo del discorso resta limpido. La semplicità disarmante con cui tutto il dolore viene messo in mostra nero su bianco crea un sentimento di forte straniamento. Il desiderio di gettare via il libro per allontanare quell’orrore è molto forte, ma la narrazione è così avvincente, avvolgente, da tenere il lettore incollato alle pagine.
Bryan lascia molti spunti su cui riflette. Pone molte domande sulla natura dell’uomo e sui suoi turbamenti. Il suo libro andrebbe letto anche solo per ritrovare un po’ di pietà, un po’ d’umanità. Nonostante tutto, il suo è un messaggio di speranza: tutti gli uomini sono distrutti, (“siamo corpi di ossa distrutte“), ma è la pietà il motore che ci aiuta a restare umani.
Ci siamo piegati a un’istinto spietato per schiacciare quella tra noi la cui distruzione è più palese.
Antonia Galise