Connesso ma non troppo
Ciclicamente sento l’esigenza di lasciar andare le inutili zavorre e cambiare un po’ di cose; questo sta capitando anche con i social: comincio a domandarmi: ma davvero il corso dei miei giorni deve essere manifestato ( in un modo o nell’altro) in rete fino – forse – alla fine dei miei giorni? La prospettiva è raggelante, almeno per me.
Pubbliche o meno, le nostre vite: quotidianità, vacanze, amori e risultati (ovviamente mai le sconfitte o le delusioni) vengono letteralmente consegnate ad una rete talmente sterminata e intricata che, nella sua mostruosità, non può che sovrastarci.
Per mostruoso non intendo qualcosa che sia spaventoso in sé, ma qualcosa che per la sua enormità e assoluta ingestibilità spaventa nella misura in cui ci disorienta.
A volte, quando navigo e saltello tra i social, mi blocco, mi fermo d’improvviso perché mi sento come senza la protezione delle palpebre davanti a una raffica interminabile – e quasi sempre superflua – di stimoli e notizie tutte contemporanee e diverse tra loro: Zalone è fascista, no è di sinistra. Salvini copula con un salame ma tra i due non si nota la differenza. Trump mette le mutande antiproiettile per tenere la testa al sicuro. Studenti bulli vengono picchiati da professori antisardine a loro volta picchiati da genitori di Forza Nuova e il cerchio si chiude!
Di questo eccesso di “cose” noi abbiamo solo l’illusione di un controllo, crediamo di poter chiudere l’app quando vogliamo, ma ignoriamo che quelle sono diventate solo pause.
Mesi fa mi rimase impressa un’immagine, un’ immagine banale e ormai quotidiana, ma per la prima volta nuova: una persona seduta a controllare suo cellulare. Ormai era un riflesso condizionato, quasi connaturato: era lì, seduta composta e con le punte dei piedi in estetica allerta, una posa studiata, immersa totalmente nello schermo che tintinnava al tocco veloce delle dita e che cambiava illuminazione allo scorrere delle pagine. Osservai per non più di cinque secondi, ma quei pochi istanti si erano già tramutati in anni luce di distanza. Aveva ragione Einstein!
Percepii, in modo assolutamente netto, una lontananza irreparabile. Quella persona era lì, a pochi metri di distanza, eppure terribilmente sconosciuta in tutto e per tutto. E dire che era una persona che conoscevo. Mi girai intorno e vidi un’altra persona assorta nella stessa operazione, poi un’altra e un’altra ancora. Nulla da quel momento in poi avrebbe potuto riparare quella presa di coscienza fulminea e atterrente, e niente per me è stato lo stesso.
Per la prima volta ho sentito una sensazione di spavento in quel gesto banale, ripeto, quotidiano e comune a tutti. Non ero spaventato dall’idea di non poter accedere a dei privati che non mi riguardavano assolutamente, quanto piuttosto il mio immedesimarmi: lì ci sono io: ci sono stato, ci sono e ci sarò ancora e ancora, con una ripetitività da contemporanea – inedita e inconsapevole – catena di montaggio.
Quel gesto semplice, in potenza del tutto innocente, ma mai del tutto incolpevole verso ciò che realmente ci circonda, lo faccio anche io, ma averne avuto consapevolezza non mi ha fatto star bene.
Non è una questione etica, per nulla; al massimo potrei tirare per i capelli una motivazione fenomenologia – ma Husserl si rivolterebbe nella tomba per la spudoratezza – ma fatto sta che da quel momento è in fieri un cambiamento nei confronti del mio mondo digitale.
Innanzitutto ho preso coscienza che c’è una porzione di inevitabile: se vogliamo essere informati e aggiornati non possiamo più fare a meno di determinati strumenti, e dall’altro ho cercato di approfondire il più possibile le mie opportunità di accesso, mi sono chiesto: “quali strumenti ho sui miei terminali che mi permettono di essere selettivo?”
Scopri così cose stupide ma efficaci: come avere la suoneria solo per chiamate e numeri importanti o urgenti e silenziare tutti gli altri, puoi silenziare le chat di gruppo, in maggior parte del tutto inutili, o uscirne. Puoi – e ammetto di averlo fatto – chiudere e bannare presenze indesiderate o moleste, o farlo solo per non utilizzare male una delle più inestimabili ricchezze dell’umano intelletto: la curiosità.
Preferisco pensare ai miei device come a degli enormi archivi di appunti, di musica, posti da tenere il più possibile in ordine e senza polvere sotto i tappeti e non come ad un diario privato che mi terrorizzerebbe perdere per quello che uno sconosciuto potrebbe trovare.
Benni una volta scrisse che bisognerebbe almeno tentare di essere all’altezza di ciò che si scrive, mica poco? Quindi facendo un’ azzardata similitudine, bé .. ridendo e scherzando anche i nostri strumenti tecnologici rispecchiano quello che siamo, forse più di quanto crediamo, e per quanto forse poco misteriosa trovo molto attraente l’idea che i miei strumenti di comunicazione siano e restino ciò che sono: “solo strumenti di comunicazione”.
Ammetto che ultimamente dimentico anche il telefonino a casa ed ogni volta tento di resistere alla tentazione di tornare indietro per recuperarlo, perché – e molti di voi converranno con me – appena passato quel quarto d’ora di smarrimento che si prova nel non essere connessi cominci a sentire una sorta di senso di leggerezza che non è per niente male. Proprio niente male.