Quando lessi 1984 mi colpì molto il concetto di lavorare sul linguaggio per modificare i pensieri.
“La guerra è pace.
La libertà è schiavitù.
L’ignoranza è forza”
La ripetizione ossessiva che doveva eliminare dagli stessi pensieri della gente l’idea di pace, di libertà, di autodeterminazione, perché le parole che l’indicavano erano capovolte nel loro contrario.
Mi colpisce Orwell, perché nel 1948 individuò un fenomeno che, secondo me, si manifesta oggi in tutta la sua violenza, soprattutto nel mondo del lavoro.
Nei discorsi delle centinaia di migliaia di persone che lavorano in quegli ambiti (di cui molti stranieri, il che aiuta l’apprendimento diretto della “neolingua”), le cooperative non sono più forme societarie mutualistiche che servono a condividere le opportunità di lavoro.
Cooperativa diventa il nome per indicare il caporalato.
Operaio non è più il lavoratore della fabbrica.
Operaio è il lavoratore diretto della committente. I lavoratori della “cooperativa” (intesa nella “neolingua”) sono i facchini, e ciò indipendentemente dalla funzione che svolgono.
E arriviamo alla summa massima della “neolingua”: sinistra non è più la parte di chi lavora è sfruttato, sinistra è la parte di chi comanda, delle élites del paese.
1984 finiva male. Io non so se per combattere la neolingua sia meglio riappropriarsi delle parole vecchie o crearne delle nuove.
Di certo però dobbiamo avere la consapevolezza che non per tutti, e in special modo non per chi lavora, i significanti delle parole storiche del movimento operaio hanno lo stesso significato.
Ed è questo uno dei motivi per cui non parliamo più (o meglio, non siamo compresi più) al di fuori della nostra bolla.
Dovremo iniziare ad affrontare la questione e, temo, sia la cosa più urgente di tutte.
Claudia Candeloro