“Un piccolo falò” con cui i nostri antenati, nelle caverne, illuminavano le tenebre nel proprio animo, per resistere al freddo e al buio della notte. Così ebbe inizio la narrazione, e così le storie che oggi leggiamo nei romanzi di Murakami Haruki: a raccontarcelo è l’autore stesso, invitato ad Alba (Piemonte) come vincitore del Premio Lattes Grinzane 2019: occasione inoltre della sua prima lectio magistralis in Italia.
I posti andati esauriti poco dopo l’annuncio, la coda all’ingresso del Teatro Sociale Giorgio Busca di Alba, il monito iniziale agli spettatori – per rispetto nei confronti della riservatezza dell’autore – di astenersi dal scattare foto e fare riprese video; poi le luci che improvvisamente si spengono in sala, e il sipario si apre su un palco affacciato su una platea doppia: così, due schiere di pubblico si fronteggiano, in piena suspense per l’attesa.
Qualcuno lo voleva persino fra i candidati di quest’anno al Nobel per la letteratura: stiamo aspettando Murakami Haruki, lo schivo ed emblematico scrittore giapponese scelto quest’anno dalla Fondazione Bottari Lattes per il Premio Lattes Grinzane 2019.
Allora, il pubblico ammutolisce: brama per l’ascesa del maestro sul palco. Tutti vogliono assistere alla lectio magistralis che ci è stata promessa, che di fatto, è anche la prima nel suo genere in Italia, dal momento che l’autore si è mostrato qui finora – fra di noi – solamente sotto le vesti del turista.
Le tenebre: il “mestiere dello scrittore“
“Il mestiere dello scrittore“: così si intitola uno dei saggi di Murakami Haruki. In cosa consiste quindi? Cosa ci ha insegnato questa lectio magistralis con il grande Murakami?
“Vedete” – esordisce– “tutti gli esseri umani hanno dentro di sé delle tenebre: esattamente come quelle che terrorizzavano – insieme a pericoli e belve feroci – i nostri antenati che si rifugiavano nelle caverne; fra questi uomini del passato, c’era sempre qualcuno che per intrattenere i compagni e far passare loro il terrore e la fame, iniziava a raccontare una storia. In questo modo, il racconto rappresentava una luce che scaldava quegli animi cupi, li confortava, permettendo loro di sopportare il freddo e la paura.”
In genere però, le storie di Murakami Haruki immergono il lettore in un mondo misto, di banale quotidianità e incredibile onirismo. Un mondo in cui i personaggi spesso si trovano in cucina a preparare un piatto di spaghetti, oppure in un ristorante di ramen, o in un bar a scolarsi birre e semplicemente… annoiarsi. Eppure può capitare che poco dopo, cada improvvisamente una pioggia di sardine, o che un personaggio stia lì fermo ad osservare, impotente, proprio se stesso, la propria precisa immagine – dalla finestra di un hotel in lontananza– avere rapporti con un uomo ripugnante.
Le tenebre di oggi infatti, non necessariamente sono quelle della notte, bensì quelle dell’anima dei personaggi – turbati, cupi, sconvolti – che poi sono le stesse che tu – il lettore – hai dentro di te. Eppure, il buio è quel territorio in cui Murakami Haruki può farti precipitare, per poi mostrarti una luce.
“Nella vera notte buia dell’anima, sono sempre le tre del mattino”, ha scritto in un saggio Scott Fitzgerald. Ed è proprio a questo genere di tenebre che io mi riferisco. Sia nei tempi antichi che al giorno d’oggi, abbiamo sempre bisogno di quei piccoli falò, in grado di illuminare il buio, che sono le storie. Di quel genere di luce che probabilmente può offrire soltanto il romanzo. Per quarant’anni, tenendo a mente quei falò, ho continuato a scrivere senza interruzione. Se con le storie che ho scritto sono riuscito, anche solo un pochino, a illuminare gli angoli oscuri di tante caverne in tanti posti del mondo, e se potessi continuare a farlo anche d’ora innanzi, non ci potrebbe essere per me gioia più grande.
(Murakami Haruki durante il suo intervento ad Alba l’11 ottobre 2019)
Affinchè noi – lettori moderni – possiamo ritrovarci in mezzo alle tenebre come migliaia di anni fa, l’abile scrittore deve servirsi di armi semplici, efficaci, essenziali – esattamente come il linguaggio a cui Murakami Haruki ha dato forma, dopo che quel giorno allo stadio Jingu rimase colpito dallo schiocco di una pallina contro la mazza da baseball. Quello fu il momento decisivo in cui presero vita le storie di oggi, quello per Murakami del: “voglio scrivere un romanzo.“
Un ritmo, una melodia, e fondamentale per Murakami Haruki è l’improvvisazione
Già, perchè per chi non lo sapesse Murakami Haruki è anche musicista (oltre che maratoneta), e in più un grande appassionato di musica, la quale spesso è alla pari dei personaggi nelle scene contenute nei romanzi. Sembrerà naturale quindi, che nel corso della lectio magistralis abbia spiegato che i suoi libri si basano fondamentalmente su di un ritmo, una melodia, e sulla libera improvvisazione.
Infatti, in principio c’è un’intuizione improvvisa, libera e del tutto personale: una frase, una scena che poi lo scrittore archivia, e lascia maturare. Quasi mai in effetti, quest’input si trasforma subito in romanzo, oppure definisce una scaletta da seguire per iniziare a scrivere: anzi, il “tempo di fermentazione” è essenziale affinché quel momento torni, e dia il via alla stesura vera e propria. A quel punto inizia a sentirsi un ritmo – quello che detta la narrazione, e spinge il lettore a macinare pagina dopo pagina – e poi una melodia, quella che rimane impressa nei ricordi, e ci porta a ricordare dei passaggi in particolare.
Un ritmo che – come accennato – è cadenzato tramite un linguaggio compattato, stringato, così da contenere e racchiudere i pensieri debordanti dell’autore. In questo, probabilmente è stato d’aiuto per il giovane Murakami, scegliere di abbozzare i primi tentativi come scrittore non in giapponese – la sua lingua d’origine, lingua che però porta con sé “come un recinto stipato di animali” pronti a uscire e “gironzolare” al primo tentativo di esprimersi (da Vento e Flipper, 2016) – bensì in inglese. I modi di esprimersi, e il lessico così necessariamente ridotti dall’uso di una lingua straniera, fecero sì che nel lontano 1978, Murakami Haruki riuscisse a metter giù i primi pensieri: le sorti di un futuro maestro, consegnate niente di meno che ai tasti di una vecchia Olivetti tirata fuori dall’armadio per l’occasione.
Ribaltare gli schemi, sbarazzarsi di quel che si intende per “letteratura“
All’inizio comunque, Murakami Haruki non aveva ancora ben chiaro come si diventa uno scrittore: una cosa era certa però, lui non era un tipo che rientrasse negli schemi e nelle aspettative della società giapponese. Nemmeno in letteratura. Lasciatosi alle spalle il repertorio del presunto “linguaggio letterario”, di ciò che l’editoria pubblicava all’epoca in Giappone, Murakami decise quindi di scrivere in una maniera che gli era congeniale: semplicemente, che piaceva a lui. Altrimenti, provando effettivamente a soddisfare i “requisiti formali del romanzo”, tutto quel lavoro alla fine era sembrato in qualche modo noioso, freddo all’aspirante autore. “Figuriamoci cos’avrebbe pensato il lettore.” (da “Vento e Flipper”).
La libertà di creare, di esprimersi, è quindi ciò che definisce lo stile di Murakami Haruki, rendendolo unico. Di conseguenza – come il maestro tiene a precisare riponendo i fogli, al termine della lezione – si tratta di un metodo assolutamente non universale: “Non esiste un modus scrivendi valido per tutti” – insiste – “eppure c’è comunque qualcosa che accomuna tutti i narratori.”
Ed è proprio ciò che ritroviamo, quando lasciamo che Murakami ci catturi con le sue storie.
Alla fine, il lettore fedele avrà riconosciuto ciò che prova quando legge Murakami: condividere i turbamenti dei protagonisti, ma anche quella pace interiore che si avverte alla fine dei romanzi. Questo “il mestiere dello scrittore“: ad illuminarci dopo questa lezione perciò non sono concetti nuovi – soprattutto per chi si è avvicinato ai suoi saggi oltre che ai romanzi – eppure sentirli enunciare dalla voce del maestro Murakami, è stata un’imperdibile emozione per chi ha avuto la fortuna di assistervi.
Alice Tarditi