Hristo Stoichkov, la stella che illuminò i mondiali del 1994, è tra gli dei della storia del calcio.
Forza ed estro, potenza ed eleganza, genio e sregolatezza. Il più grande calciatore che abbia mai danzato sul campo da gioco con addosso la maglia della nazionale bulgara.
Lunedì sera, mentre commentava il match tra Bulgaria e Inghilterra, Stoichkov è esploso in un pianto sconsolato. Lui, il duro del calcio, con la testa imbiancata dagli anni piegata per non mostrare al pubblico le lacrime.
Piangeva. E non per l’esito della partita. Non era quello il tema. Ma per i saluti nazisti comparsi tra gli spalti e i cori razzisti urlati dai tifosi.
E no, ancora no: non piangeva perché la vittima fosse lui o la sua nazionale. Ma perché a sollevare le braccia nel saluto nazista e a urlare frasi razziste contro i giocatori, erano i tifosi della sua nazionale.
“Il mio paese non se lo merita”.
Le lacrime di Stoichkov sono state lacrime di dolore e di vergogna. Le lacrime di un padre che vede i propri figli perdersi in un gorgo di odio senza comprenderne la ragione.
E come un buon padre di famiglia, asciugate le lacrime, Stoichkov non ha cercato scuse, non ha chiesto clemenza, non ha chiesto mezze misure. Ma ha invocato la più dura delle sanzioni. E non solo per i tifosi. Ma per il suo Paese.
“Buttateci fuori dalle competizioni” ha detto, “i razzisti non meritano coppe”.
Hristo Stoichkov, se ti ho adorato come calciatore, ora ti ammiro immensamente come essere umano.
E che siano da lezione, le tue parole, a un’Italia ha avuto l’onore di vederti giocare, e in cui il razzismo è oggi preso come folklore da tollerare, come uno sfogo da capire, come colore nelle partite di pallone e tra i commenti di qualche politico. Che per tutto quello schifo non si è mai scusato con nessuno e non ha mai sprecato una sola parola. Alimentandolo, anzi, ogni santo giorno.