La guerra è da sempre erroneamente considerata una questione propriamente maschile. La massima espressione della virile affermazione del sé e della forza dell’uomo, da sempre esercitata ai danni dell’altro.
Ma siamo sicuri che, culturalmente e storicamente le donne non abbiano avuto nulla a che fare con la guerra, nel passato e tutt’ora nel presente?
Al contrario, le donne sono state le protagoniste nascoste della maggioranza dei conflitti che modificarono il corso della storia nel Novecento. Oggi, in alcuni paesi, ricoprono un ruolo militare tutt’altro che irrilevante.
La prima occasione che, nel Novecento, vide protagoniste le donne fu la prima guerra mondiale.
Le donne intervennero nel conflitto sostituendosi agli uomini al lavoro. Donne postine, operaie, contadine. Donne in fabbrica, donne alla guida dei trattori.
La partenza per la guerra di migliaia di soldati per il fronte significò infatti anche l’incombenza di un vuoto lavorativo che doveva necessariamente essere riempito, al fine di salvaguardare l’economia del Paese.
Le donne furono dunque fondamentali affinché la guerra potesse in qualche modo continuare. Lo stesso si verificò per la seconda guerra mondiale. In entrambe le occasioni le donne si sono trovate in situazioni che esulavano completamente dalla loro quotidianità. La necessità le portò ad assumere un ruolo che fino ad allora si pensava non fosse consono alle donne o, addirittura, che fosse per loro sconveniente.
I risultati furono un momentaneo cambiamento di vita, ma anche di consapevolezza a lungo termine. Le donne si scoprirono capaci, talentuose, tanto e talvolta anche più degli uomini.
La tragedia della guerra ebbe dunque delle ripercussioni positive sull’amor proprio e sull’identità femminile.
Ma non mancarono di certo le problematiche: a guerra finita la società patriarcale si andò a ricostituire nei suoi tasselli originali. Le donne che fino ad allora avevano faticato per poter mandare avanti il Paese vennero licenziate. Qualcosa però si era insinuato nella coscienza sociale del mondo. Un piccolo germoglio di rivalsa femminile stava da lì a poco per sbocciare.
Come ha giustamente affermato Paolo Mieli nel 2011, in una puntata di “Correva l’anno”, trasmissione Rai, non è infatti escluso, anzi è altamente probabile che la guerra abbia avuto il positivo ruolo di aver cominciato a smuovere lo status di subalternità femminile, contribuendo alla loro graduale conquista dell’autonomia.
La ragione principale, a detta di Mieli, è insita nel carattere proprio della seconda guerra mondiale: non si trattò più infatti di una guerra di trincea, bensì di un conflitto che attaccò il quotidiano vivere. La guerra entrò nelle case delle persone, portando fame, miseria e uno stato di allarme perpetuo.
Tutti ne furono coinvolti e nessuno ne fu escluso. Anche in questo caso le donne, come nella prima, si occuparono dei posti di lavoro dei mariti.
Ma le responsabilità femminili andarono ben oltre. Quest’ultime, in occasioni ideologicamente opposte, si ritrovarono a poter ricoprire un ruolo attivo, talvolta militare, nel conflitto in corso.
La prima guerra quotidiana che le donne dovevano combattere era con la fame che, con il protrarsi del conflitto mondiale, andava sempre più ad esasperarsi, essendo il cibo disponibile limitato dai razionamenti. Portare in tavola un pasto per la propria famiglia fu la prima battaglia che spettava unicamente alle donne, sole e dunque responsabili di tutto.
Il loro ruolo durante la guerra divenne ancor più cruciale a partire dal 1943. In Italia, ma non solo, molti uomini riuscirono a nascondersi, a scappare dalla deportazione o dall’arruolamento nazista proprio grazie all’intervento femminile.
La scesa “in campo” militare delle donne invece si verificò in due occasioni totalmente opposte. In Italia seimila volontarie si arruolarono al “Servizio ausiliare di guerra, divisione femminile“. Vennero addestrate come gli uomini per la difesa della neonata Repubblica di Salò, ma il loro compito pratico non fu mai quello propriamente militare. Ricoprirono più che altro ruoli di supporto.
Questa posizione intrapresa da alcune donne, che orgogliosamente indossavano la divisa e il basco da soldato coloniale, fu duramente contestato nel dopoguerra. L’essere donna infatti costituiva un’aggravante per l’opinione pubblica, in aggiunta alla militanza fascista.
Una guerra non dichiarata, ma storicamente e politicamente cruciale, fu quella della resistenza partigiana al nazifascismo. Il ruolo femminile anche in questo caso fu importante, poiché molte donne presero posizione e contribuirono alla liberazione della patria.
La celebre staffetta partigiana, le azioni di protesta: tutto compiuto con lo stesso pericolo degli uomini. Le donne partigiane vissero sulla propria pelle lo stesso rischio di venire uccise e torturate degli uomini, senza alcun sconto di genere.
In tutto il mondo un altro contributo tipicamente femminile alla guerra fu il servizio di crocerossine. Quest’ultime ricoprivano un ruolo cruciale per la salute e la salvaguardia delle vite dei soldati, ma i loro sforzi inizialmente, poiché donne, spesso faticavano ad essere riconosciuti.
Le infermiere di guerra si conquistarono a poco a poco la stima degli uomini, riuscendo a salvare migliaia di vite e dirigendo al meglio i reparti sanitari. Un caso celebre fu quello di Florence Nightingale, dirigente del reparto sanitario dell’esercito della Gran Bretagna nella guerra di Crimea. Florence ha fondato la Scuola per infermiere, poi diventate crocerossine.
Nella contemporaneità i conflitti non sono più mondiali, ma non sono certo scomparsi. Soprattutto molto spesso ci sono, ma subiscono un silenzio mediatico che li mette in secondo piano.
Anche oggi, come in passato, le donne acquisiscono una posizione pari o considerevolmente alta nei conflitti armati, ricoprendo in alcuni casi dei ruoli particolari e cruciali, non solo a livello militare, ma anche per la salvaguardia dei diritti umani.
Uno dei casi più considerevoli è sicuramente quello delle donne curde. L’impegno e la militanza femminile curda, assieme a quello maschile nella guerra contro il fondamentalismo islamico, è stato alto e cruciale.
Il PKK, movimento di liberazione curdo sorto negli anni Settanta, conta la presenza e la militanza di molte donne.
Pare infatti che circa il 40 per cento dei soldati curdi sia donna. La rivendicazione femminista e di genere ha portato molte donne a preferire la guerra e a lasciare tutto, sottraendosi anche al rito patriarcale del matrimonio.
L’intento rivoluzionario del movimento di liberazione, più volte sotto accusa per i suoi metodi di guerriglia, abbraccia una parità di genere che nasce dall’idea che una partecipazione di tutti alla resistenza possa portare alla liberazione.
Lo stupore occidentale sulla presenza di molte donne soldato curde è dovuto all’erroneo immaginario che vede la donna non occidentale sottomessa all’uomo. Ma la storia politica del Kurdistan, da sempre in lotta per il riconoscimento della propria identità, ha contribuito positivamente a ribaltare ogni differenza di genere. L’ideologia marxista alla base del movimento di liberazione del popolo curdo non prevede alcuna distinzione tra donne e uomini.
Le donne curde hanno combattuto le forze dell’Isis, non solo come pericolo, ma anche per quanto concerne la limitatezza maschilista dello Stato Islamico, che si abbatte sulle donne e sulla loro libertà.
Hanno combattuto e continuano tutt’oggi come protagoniste di due guerre parallele, una femminista, una a difesa del loro popolo. Le donne curde siriane che si sono schierate contro l’Isis fanno parte del YPJ: Unità di protezione delle donne, divisione femminile dell’esercito curdo.
Si è schierata con l’YPJ anche una ragazza italiana che oggi ha solo ventisette anni, Maria Edgarda Marcucci. Nel 2017 “Eddy” (il suo nome da combattente) è andata in Siria per combattere le forze dell’Isis e per la difesa della libertà e dei diritti delle donne islamiche.
Maria Edgarda, insieme ad altri due giovani italiani che hanno combattuto l’Isis, è attualmente sotto udienza della Procura di Torino, che ha chiesto la sorveglianza speciale per loro come soggetti socialmente pericolosi.
Come emerge da una recente intervista a Maria Edgarda rilasciata a Radio Radicale il 17 Ottobre 2019, si dovrà attendere quindici giorni per capire se il tribunale di Torino vorrà procedere con il dibattimento dei fatti citati, o si tratterà di un’udienza definitiva.
Claudia Volonterio