Di cartoni animati con principesse bianche ed eteree se ne sono visti molti. In loro si sono immedesimati milioni di bambine e bambini per diverse generazioni.
Da “Biancaneve” a “Cenerentola”, passando per Belle di “La bella e la Bestia”, per arrivare alle più recenti Elsa e Anna di “Frozen”. Tutti noi (o quasi) da piccoli avevamo una principessa, un supereroe di un cartone animato nel quale ci rispecchiavamo facilmente.
Il “potere” del rispecchiamento era tanto più forte quando si riscontrava una somiglianza nell’aspetto, nelle abitudini e nei modi di fare tra noi bambini e loro.
Ma, accendendo la televisione o andando al cinema, si ha davvero l’impressione che proprio tutti i bambini possano riconoscersi?
Il rispecchiamento cinematografico è un processo importante e rassicurante per un adulto, ma lo è soprattutto per un bambino. La rappresentazione offre infatti una legittimazione allo spettatore, che in questo modo sa di esistere e di avere un ruolo riconosciuto nel mondo.
Spesso però nei paesi occidentali, ma anche nella stessa Africa, è difficile trovare sullo schermo un modello nero di riferimento per i bambini.
Quasi tutti i protagonisti dei cartoni infatti sono bianchi. Questa mancanza è riconducibile a diverse ragioni storiche e culturali. Il colonialismo europeo in Africa in primo luogo ha prodotto e imposto l’immagine bianca occidentale come dominante e naturale rispetto a quella nera, concepita come inferiore e dominata. Il cinema ha da sempre veicolato questo stereotipo che ha puntato molto sulla squalificazione della cultura e della pelle nera, anche in epoca postcoloniale.
La discriminazione però non avviene soltanto riproponendo modelli stereotipati sull’Africa e sugli africani. Si verifica anche portando avanti un vuoto, un’assenza rappresentativa del personaggio di colore, soprattutto nel ruolo del protagonista, che è spia di una mancanza culturale nel superamento di certi modelli coloniali.
L’Africa ha il diritto e la necessità di raccontarsi e soprattutto di farlo come soggetto, proponendo la sua storia e la sua cultura dal proprio punto di vista.
I cartoni animati sono un potente mezzo di insegnamento che ha una grande influenza sui pensieri e sui comportamenti dei bambini. Come tale ha una precisa responsabilità nel veicolare una rappresentazione quanto più eterogenea possibile, che educhi inoltre i bambini alla diversità.
Un bambino di colore, che viva in Africa o in qualsiasi altra parte del mondo, ha gli stessi diritti di un bambino bianco di riconoscersi guardando i cartoni animati.
Non esserci sullo schermo può infatti portare insicurezza, comportamenti sbagliati, o addirittura a nascondersi. Non avere un modello può indurre a pensare che ci sia qualcosa di sbagliato in se stessi. Crescendo, può portare gli spettatori a sviluppare ancora di più questa insicurezza. Capelli stirati, pelli sbiancate sono solo un paio di esempi di un’insicurezza poi amplificata da un confronto quotidiano, nella vita “reale”, con chi ancora discrimina e fa percepire un adeguamento ai canoni estetici occidentali ancora più urgente.
Oggi la situazione sta lentamente cambiando, passo dopo passo, soprattutto grazie all’Africa e agli africani che lavorano attivamente per rendere i loro paesi concorrenti nel mondo dell’entertainment.
Alcuni traguardi in merito sono stati raggiunti anche in Occidente: nel 1998 “Kirikù e la Strega Karabà” del regista francese Michel Ocelot propone una storia dove il protagonista è un bambino che nasce e vive in un villaggio africano. Kirikù nasce e già sa parlare e camminare. Ha un ruolo fondamentale ed estremamente positivo nella vicenda, è un vero e proprio eroe. La storia di Kirikù prosegue anni dopo con un altro episodio: “Kirikù e gli animali selvaggi”.
Nel 2009 Disney produce per la prima volta un film d’animazione con una principessa nera come protagonista, “La principessa e il ranocchio”. Questa scelta lascia trasparire dei cambiamenti della visione collettiva, che in quegli anni si stava lentamente modificando, forse anche grazie alla presidenza di Obama.
Nel 2019 Michel Ocelot propone un altro film d’animazione, “Dililì a Parigi”. La protagonista una bambina nera che viene dall’Africa e si trova momentaneamente a Parigi, durante l’Esposizione Universale. Il film è spia di quanto successo durante l’epoca coloniale, ma non solo. Veicola messaggi femministi e di uguaglianza di genere importanti, con la bellezza che l’animazione di Ocelot garantisce sempre.
Ciò che risulta più interessante però e maggiormente in linea con l’esigenza della comunità di colore di raccontare e raccontarsi, sono i cartoni animati interamente realizzati da produzioni africane.
“Bino and Fino” dei fratelli Adamu e Ibrahim Waziri, molto apprezzato dai più piccoli, è sicuramente un esempio calzante di quanto detto. Realizzato da EVCL, uno studio di Abuja, in Nigeria, questo cartone non solo permette un rispecchiamento fisico per i bambini neri che lo guardano, ma soprattutto culturale. I bambini nigeriani ritrovano infatti sullo schermo usi e costumi che sono abituati a vivere nella quotidianità.
Un episodio in particolare racconta in un modo semplice e diretto, adatto ai più piccoli, il difficile percorso che la Nigeria come altri stati del continente africano hanno dovuto attraversare, prima di raggiungere l’indipendenza.
Il pubblico, sia quello nigeriano, sia quello della diaspora africana ha reagito molto bene a questo tipo di prodotto. L’importanza di un cartone animato del genere tocca anche il piano della rappresentazione in sé. I luoghi, i personaggi sono tutti fedeli a un’idea di Africa che non è quella occidentale, ma quella dei registi che l’hanno vissuta e nella quale sono nati.
Un altro punto importante su cui è interessante soffermarsi è il fatto che un film d’animazione africano proponga personaggi umani e non solo animali parlanti.
Questa è un’eventualità che spesso succede, quando l’ambientazione è africana. Nulla togliere alla qualità di tali prodotti. Questa pratica però può veicolare l‘erronea e assurda convinzione che non ci siano persone in Africa, o comunque siano meno rispetto agli animali. Si tratta dunque di superare un’idea di esotismo africano eccessivo, portato allo stremo.
Un altro esempio interessante di produzione interamente africana è il caso di “Abeba and Abebe”, realizzato in Etiopia da etiopi, pensato per bambini un po’ più grandi, dai sei ai dodici anni. Il cartone è ironico e divertente, ma cela un intento importante: parla infatti dei diritti che ciascun bambino etiope possiede, secondo la Costituzione.
Spostandoci nel continente, il Sud Africa ha prodotto invece “Jabu’s Jungle”, distribuito in ventidue paesi africani. Si tratta di un film d’animazione che segue le avventure di Jabu, un bambino di nove anni. Assieme al suo Drum magico, Jabu esplora la giungla ed entra in contatto con gli animali che ci vivono. La sua popolarità ha fatto sì che venisse trasmesso anche on demand, così da poter essere seguito da ogni parte del mondo.
In Italia vengono distribuiti cartoni animati interamente di produzione africana?
Purtroppo, se i cartoni con protagonisti personaggi di colore si contano sulle dita di una mano, la situazione è peggiore per quelli di produzione non occidentale che circolano nel nostro paese. Se ci sono, passano ancora troppo inosservati.
Ma il loro essere nella maggioranza dei casi realizzati in inglese e disponibili on demand li rende dei prodotti già abbastanza fruibili. Non ci resta che rimanere in attesa che l’animazione si faccia sempre più multicolore, magari anche all’interno dello stesso cartone e che le opportunità per l’entertainment africano di una distribuzione maggiore si amplifichino con il tempo.
Claudia Volonterio