Mentre i crimini calano sempre più, il tasso di recidività dei criminali è in costante aumento.
Raramente il dibattito pubblico tocca la questione delle carceri italiane. Il detenuto è infatti un elemento spinto ai margini della percezione del popolo. Egli è una persona che viene esclusa, per punizione, dalla società. E’ colui che nessuno vuol vedere, con il risultato che spesso può essere dimenticato. Il dibattito politico, il più delle volte, tenta d’ignorare una questione spinosa e strutturale come quella delle carceri. Con il risultato che gran parte dei problemi si stanno amplificando sempre più. In primo luogo il sovraffollamento ormai ingestibile, provocato non tanto da un aumento dei criminali quanto dal fatto che, chi entra in carcere una volta, ci rientrerà probabilmente poco dopo essere uscito. Questo ci riporta immediatamente al secondo, ingombrante problema delle carceri italiane: non sono presenti veri e propri programmi di riabilitazione dei detenuti.
Da parecchi anni, ormai, molti paesi si stanno rendendo conto di come il “carcere punitivo” non sia in grado di ottenere validi risultati nella lotta alla criminalità. Al momento, la modalità di reclusione che sembra più funzionale allo scopo, infatti, pare essere quella del “carcere rieducativo“. Un luogo di detenzione in cui la punizione da infliggere al detenuto passa in secondo piano. In favore di un complesso insieme di strumenti, atti a garantire un soddisfacente reinserimento del detenuto nella società.
La logica che si trova dietro a questo metodo è piuttosto semplice. Essa ritiene che il crimine derivi, nella maggior parte dei casi, dai contesti culturali, sociali ed economici in cui le persone vivono. La povertà e l’ignoranza, ad esempio, son considerati due elementi che aiutano la formazione di criminali. Ecco quindi che il carcere deve assumersi il compito di “salvare” i detenuti da simili contesti, impedendo così che, una volta usciti dal carcere, ci rientrino in poco tempo.
In Italia, nonostante qualche timido passo avanti, siamo ancora bloccati alla vecchia idea di carcere punitivo.
Il risultato è piuttosto ovvio. Malgrado la costante diminuzione dei crimini, aumentano sempre più i recidivi. La percentuale di detenuti che, una volta usciti dal carcere, finiranno rapidamente per tornarci, raggiunge infatti il 60%. Numero che scende al 19% per chi intraprende percorsi di reinserimento; e all’1% per chi viene reinserito direttamente in un’attività produttiva. Gli svantaggi causati dal carcere punitivo, sotto questo aspetto, sono molteplici. Il detenuto sa bene che, fuori dal carcere, potrebbe trovare “il vuoto“. Sa bene che rischia di ritrovarsi nella stessa vita che, in origine, lo ha portato a delinquere. Sa anche di non poter cambiare la situazione. Egli è infatti isolato, non può dialogare col mondo. Può farlo solo con altri detenuti.
Questo ci conduce al secondo problema che provoca la recidività. I detenuti possono rapportarsi solo ad altri detenuti. Una grave limitazione in un paese come il nostro, con un forte problema di criminalità organizzata. Il detenuto che non vuole tornare alle sue vecchie condizioni di vita, infatti, si troverà a chiedere aiuto proprio ad altri detenuti. I quali provengono, a loro volta, da altrettante condizioni disagiate. Spesso e volentieri, l’unica possibilità per il detenuto che non vuol tornare alla sua vecchia vita, è quella di affidarsi alla mafia. Ecco come moltissimi spacciatori o ladruncoli “indipendenti” finiscono per entrare, a pieno titolo, tra le maglie della criminalità organizzata, nel momento in cui escono dal carcere.
Il ruolo dell’educazione
Uno dei pochi aspetti positivi nel sistema delle carceri italiane, è (o meglio, era) l’attenzione data all’educazione. Ai detenuti è infatti permesso seguire corsi di formazione all’interno delle carceri, ma non solo. Essi possono scegliere di “riprendere gli studi“, magari per andare oltre la terza media, o anche per laurearsi. L’educazione è infatti una delle armi principali per combattere la recidività. Non solo offre maggiori possibilità occupazionali, ma permette al detenuto di “uscire” dal suo contesto socio-culturale, apprendendo nuove visioni sul mondo e modi alternativi di vivere la vita.
Nella prima frase di questo capitolo mi son sentito obbligato all’utilizzo del passato. Mi son sentito obbligato perché tra i vari tagli effettuati da questo governo, spiccano quelli a danno dell’educazione dei carcerati. Non si tratta di tagli ingentissimi, dobbiamo essere onesti, ma son comunque dei tagli. Per darvi un’idea: sulle 40 classi attive a Rebibbia, ne resteranno attive 32. Come potete vedere non si tratta di un taglio particolarmente drastico, ma risulta gravissimo alla luce del sovraffollamento strutturale delle carceri. Risulta inoltre grave alla luce del concetto che vi sta dietro. Tagliare fondi all’istruzione in carcere equivale tornare, ideologicamente, all’immagine del criminale che deve solo esser punito. Rischiando in questo modo di amplificare ulteriormente il tasso di recidività.
Ad essere cambiato, nel corso degli anni, è anche il target di questi progetti educativi.
Se in passato la maggioranza dei detenuti coinvolti da progetti educativi era di età compresa tra i 30 e i 50 anni, la situazione sta cambiando rapidamente. Sono sempre di più, infatti, i detenuti appena maggiorenni, o che ancora non hanno raggiunto i trenta. Giovani detenuti, che indicano come il disagio sociale venga percepito in maniera sempre più precoce. Cause principali: una dilagante ansia per il futuro, e un’istruzione che, sempre meno, riesce a dare buoni risultati.
Per questi giovani detenuti i progetti educativi risultano ancor più importanti. Può essere infatti complicato reinserire nella società dei detenuti adulti, interamente formati e radicati nel contesto sociale che ha generato il crimine. Spesso l’unico modo per “salvare” questi soggetti consiste nel garantir loro un diretto inserimento lavorativo. Tuttavia siamo ben lontani da simili programmi su scala nazionale.
Per i giovani, però, l’educazione può fornire davvero un ottimo strumento per il reinserimento in società. Risolvendo alla radice un problema che, sul lungo periodo, potrebbe diventare ancora più grave. Per comprenderlo è sufficiente un semplice ragionamento logico. Un tasso di recidività alto come quello italiano risulta problematico quando riguarda soggetti adulti. Immaginate la gravità di quello stesso tasso relativo a ragazzi, che potrebbero vivere un costante “avanti e indietro” tra crimine e carcere. Non per 30 o 40 anni, ma per 50 o 60.
Non combattendo la recidività rischiamo, in poche parole, di veder aumentare sempre più la “longevità media” del detenuto. Con ovvi e ulteriori problemi per il sovraffollamento delle carceri italiane.
Andrea Pezzotta