L’Australia dichiara guerra ai gatti: il governo ha programmato l’uccisione di circa 2 milioni di gatti selvatici entro il 2020 tramite pasti avvelenati. Questo programma di governo nasce nel 2015, con l’obiettivo di salvaguardare le altre specie animali. Perché?
Lo scopo dunque è quello di proteggere altre specie animali, in quanto la crescita esponenziale di gatti selvatici ha messo a rischio almeno 20 specie animali. La notizia dello sterminio ha suscitato forti reazioni da parte delle associazioni animaliste, che vorrebbero sensibilizzare il governo attraverso una raccolta firme, e di esperti che stanno cercando di trattare con le istituzioni locali un’alternativa.
Le modalità di uccisione? Vengono lanciate da un aereo delle polpette, messe a punto da uno scienziato chiamato Dr. Morte. La ricetta è a base di carne di canguro, grasso di pollo, un mix di spezie ed erbe e un veleno – chiamato lo 1080 – altamente letale per gli animali. Nel giro di 15 minuti porta alla morte. Chi è questo Dr. Morte? Il suo vero nome è Dr. Dave Algar, uno stimato ricercatore del Department of Biodiversity Conservation and Attractions.
Il fragile sistema dell’Australia
L’isola presenta un ecosistema molto fragile, che dipende dal fatto di essere un continente rimasto a lungo isolato. Infatti in questi territori gli animali sono poco adattati alla presenza di predatori. Sulle isole gli uccelli tendono a volare più basso e a nidificare a terra, diventando facilmente vittima dei gatti selvatici. La soluzione può risultare estrema e crudele, in quanto non è facile conciliare l’immagine che ognuno di noi ha del gatto come animale domestico con quella di un predatore che minaccia la biodiversità.
Diversi studi, dall’America all’Europa, hanno tentato di quantificare l’impatto che i gatti selvatici hanno sulle altre specie animali e all’unanimità hanno dimostrato che rappresentano una delle principali cause di mortalità fra gli uccelli e gli animali di piccole/medie dimensioni. Nientemeno alcune sono a rischio estinzione. Non dimentichiamoci che in un territorio come quello australiano, la razza felina è stata portata dall’uomo durante le sue colonizzazioni.
“La pulsione predatoria del gatto lo spinge a cacciare anche quando è ben nutrito“, afferma Danilo Russo, ricercatore di ecologia all’Università di Napoli e coautore dell’unico studio sul tema. Dunque, la questione non riguarda solo le colonie di gatti selvatici o randagi, ma comprende anche quelli addomesticati. “Diversi studi dimostrano che i gatti possono anche avere effetti definiti sub-letali: la sola presenza nelle vicinanze dei siti di nidificazione riduce la capacità proliferativa degli uccelli“, prosegue Russo, “perché l’aumentata vigilanza nei confronti dei predatori riduce gli sforzi per procurarsi il cibo e nutrire i piccoli”.
Esiste una soluzione differente?
Per par condicio bisogna dire che, se forti critiche sono state mosse dalle associazioni animaliste di tutto il mondo, la scelta australiana ha trovato il placet dell’opinione pubblica australiana. Ebbene sì, la popolazione australiana è famosa per essere quasi gelosa del loro status di isolati e ciò li porta a preservare e custodire ogni loro caratterizzazione, sia culturale che ambientale.
“Sono state fatte sperimentazioni sull’utilizzo della campanella che, attaccata al collare, dovrebbe far fuggire l’animale minacciato”, tranquillizza Russo. “I risultati sono però contrastanti sui mammiferi, e la strategia sembra non funzionare con gli uccelli. Pare che per la fauna selvatica sia difficile associare il suono della campanella all’avvicinarsi di un predatore“. La scelta migliore, che trova tutti d’accordo, è quella di tentare di contenere il fenomeno del randagismo (tramite la sterilizzazione e il controllo sulle nascite). “Se la presenza di un gatto significa la morte di centinaia di altri animali, il problema non è solo biologico, ma anche di benessere animale”, chiude il ricercatore, “perché il benessere della fauna selvatica vale almeno quanto quello dei gatti”.