Buona Pasqua dall’al di qua
Persino il dolore collettivo è relativo, e questa settimana santa ne è una lampante prova. Prende fuoco la cattedrale di Notre-Dame – forse per un banale corto circuito tra le impalcature innalzate per il restauro – e il mondo resta attonito: assistiamo ad una corsa di fondi non richiesti da parte di questo o quel riccastro per la sua ricostruzione, però questo dolore estetico e storico non è nulla in confronto al giramento di coglioni che avranno provato tutti i tifosi juventini dopo che l’Ajax li ha eliminati dalla Champions. La frustrazione supera di brutto la perdita di un simbolo storico della coscienza europea e mondiale.
Non è una questione da poco, né un giudizio di valore, ma un puro e semplice dato di fatto; alla fin fine, nel pieno del mitragliamento mediatico a cui siamo costantemente sottoposti, perdiamo o acquistiamo interesse esclusivamente in base alle nostre esigenze. E’ inutile sfondarsi di post addolorati con selfie in bermuda davanti a Chartres sicuri che sia Notre-Dame, l’ipocrisia è evidente.
Per questo le stragi di oggi nello Sri Lanka non ci toccano più di tanto. Non conta se nei primi due casi non è crepato nessuno, mentre stamani, dall’altra parte del mondo, ci sono stati 215 morti e 500 feriti, appunto perché era l’altra parte del mondo.
Se una tale tragedia si fosse verificata “al di qua”, in occidente, sarebbe stata una Pasqua da dimenticare, addirittura portatrice di funesti presagi, ma la fortuna ha voluto che accadesse “al di là”, quindi resta una Pasqua come le altre, da buttare “a panza piena” dietro le spalle, nella quale al massimo mettiamo in croce Vissani perché fa strage di capretti all’arma bianca. Come se già essere Vissani non bastasse.
Insomma, con buona pace di Jung, inizio ad avere miei sospetti sull’esistenza di una coscienza collettiva, o se ne abbiamo potuto intravvedere un barlume in passato, ho i miei dubbi che la connessione globale abbia contribuito a consolidarla, anzi.
Cavolo, è possibile che per creare un evento senza precedenti ad oriente è necessario che un povero Cristo è costretto a crepare e poi resuscitare dopo tre giorni mentre nei dintorni basta essere un idiota qualsiasi per avere risonanza mediatica? Tutto stona, no? Però è proprio questa continua dissonanza la nostra melodia, il nostro “sentire” di essere al mondo. Il nostro credere di esserne al centro. Questa è la nostra cifra, la nostra firma. A ben vedere anche il nostro epitaffio, soprattutto alla luce del fatto che, mentre crediamo ancora di essere al centro del mondo, i cinesi – tomi tomi e cacchi cacchi – ci stanno comprando anche i peli del culo.
Popolo straordinario e che ha tutto il diritto di conquistarci: sono un miliardo e mezzo e ci stanno inculando senza fare il minimo rumore. Bé… a Cesare quel che è di Cesare, meritano questo ed altro. Non ci meravigliamo se tra un po’ ci venderanno bambole in scala 1:1 di Greta Thunberg costruite con materiali tossici made in Chernobyl.
Non siamo abituati ad essere periferia, eppure lo siamo già: decentralizzati, spodestati, comprati, ma nell’animo – questo sì collettivo e illusorio – crediamo ancora di fare la storia, pensiamo ancora che il retaggio di un passato “colonizzante” possa reggere nei confronti di un avvenire dal quale abbiamo abdicato.
Nel tentativo di laicizzare il messaggio pasquale confondiamo resurrezione con rinascita, spesso utilizziamo il secondo termine per sembrare meno legati ad una tradizione che – coi tempi che, letteralmente, corrono – ci va’ snobisticamente stretta, e invece è proprio la parola resurrezione che dovrebbe farci tremare. Simbolica o realmente accaduta questa parola diventa un gesto senza precedenti, che travalica la storia, la spezza irreparabilmente in due, come ha scritto Karl Barth, più che innalzarci da essa ci fa sprofondare in una consapevolezza del nostro essere al mondo senza alcun appiglio, forse senza neanche noi stessi.
Se è faticoso decidere di rinascere, di essere nuovi al mondo, figuriamoci cosa può significare risorgere in esso. Comunque Buona Pasqua, tanto la Juve – purtroppo – ci riprova l’anno prossimo.