Il morso rumoroso di questa tigre, gli artigli che si conficcano nella fronte del cacciatore, le zampe predatrici ma eleganti che si ancorano alla carne umana sono tutti dettagli che appartengono ad un dipinto di Peter Paul Rubens. Il morso selvaggio, di cui riusciamo a sentire la pressione dei denti, è posto al centro della “Caccia alla tigre“, un grande quadro realizzato dal pittore fiammingo tra il 1615 e il 1616 e non è il solo dipinto a raccontarci scene di caccia: Rubens, infatti, col proprio pennello “diede la caccia” a un ippopotamo, a un coccodrillo, a un leone, ad un cinghiale, a un lupo e ad una volpe. Queste scene di caccia gli erano state commissionate dal principe elettore Massimiliano I di Baviera per abbellire i saloni del suo palazzo e stupire gli ospiti con le immagini di questi animali esotici.
C’è chi, nella pittura del Novecento, amerà le tigri a tal punto da farne un “cavallo” di battaglia, uno stile tutt’ora inconfondibile. Un artista che non verrà mai dimenticato grazie alle fauci spalancate delle sue tigri, al loro manto brillante e all’impressionante velocità che attraversa i suoi dipinti. Stiamo parlando del pittore “naif” Antonio Ligabue, e della sua passione per questi animali così distanti da lui, così esotici, eppure tanto vicini alla verità della sua anima. Ligabue ha permesso al suo spirito inquieto di gridare dalla bocca delle tigri, con il loro ruggito, e ha fatto delle proprie pulsioni la corsa delle belve verso la preda. Nei suoi dipinti, possiamo imbatterci in tigri (e leopardi) assalite dai serpenti o dai ragni, tigri che ci guardano mostrandoci la forza dei loro denti minacciosi, belve che ci parlano di cosa c’era dentro un pittore come Ligabue: la natura più ribelle e selvaggia. All’inizio di un documentario dedicato a Ligabue (reperibile su YouTube), vediamo Ligabue chiacchierare con gli animali riproducendone i versi; forse, per non dover parlare con gli uomini si era inventato una lingua con cui riusciva a parlare con le tigri che creava e, infine, con se stesso.