Di Pino Aprile
Il potere si arrocca, perché perde terreno e ha paura. Ed è questo il momento peggiore (i Renzi non capitano a caso). Le strutture (oggi si direbbe il format) del potere costruite in due secoli di civiltà industriale sono ormai antiquate, inadatte alla civiltà informatica; e la loro riconversione è difficile, in alcuni casi impossibile.
Quando un potere è forte, non teme per la sua sopravvivenza, può permettersi un certo grado di conflitto e concorrenza al suo interno (e magari ce la spacciano per democrazia): così puoi avere più partiti in lotta fra di loro, correnti combattive all’interno dei partiti; i giornali hanno linee politiche ed editoriali diverse e si contendono i lettori su una base molto più larga, anche di opinioni; le amministrazioni locali possono fare esperimenti politici con alleanze più varie; le banche, l’economia, la finanza possono operare a una certa distanza dall’influenza dei governi, perché comunque non si allontanano (mancando alternativa vera) dall’area e dal sistema del potere imperante.
Ma dal 1989 (in Italia le varie P2, P3, P Verdini, P Renzi non se ne sono accorti) è iniziata la terza rivoluzione culturale e tecnologica della storia della nostra specie, dopo quella agricola (diecimila anni fa) e quella industriale (1789). Il che sposta su altri piani, supporti, metodi e saperi il gioco del potere: cambiano gli strumenti, cambia la vita, cambiano le tecniche per guidarla.
Ma il vecchio non ci sta a farsi da parte. Ogni volta che questo è accaduto, non dappertutto, ma quasi ovunque, si è dovuti ricorrere allo spargimento di sangue, alla soppressione dell’antico e all’imposizione del nuovo (gli agricoltori uccidono i nomadi o li relegano in aree deserte (così il coltivatore Caino elimina l’allevatore Abele; così le armate al servizio della nascente era industriale fanno sorgere gli stati nazionali, vedi l’Italia e la palla dei Mille, la guerra di secessione negli Stati Uniti, eccetera).
La pagliacciata è prendersi in giro mettendo a capo del governo uno che l’anagrafe dice giovane, ma i metodi assicurano antidiluviano: manco la Dc del dopoguerra! (Anzi, magari la imitasse nel senso dello Stato, della maggior attenzione ai più indigenti e disagiati: l’assistenza sanitaria, le case popolari, la scuola per tutti che questi cialtroni stanno smantellando a favore dei pochi che possono e di se stessi, sono frutto di quella Dc, incalzata da quel Pci e quei sindacati).
Di fatto, i giornali in dissolvimento, nemici dei propri lettori, amici solo dei loro padroni e di chi comanda (anche prima, ma con uno smarrito senso della misura e della decenza che consentivano spazi di libertà oggi inimmaginabili), hanno via via ridotto le dissonanze e oggi parlano a pagine unificate; tant’è che, venendo meno, con le differenze, i lettori e le ragioni per continuare a esistere separati, si fondono, muoiono uno nell’altro o sull’altro.
Il che è prova ulteriore dell’arroccamento dei poteri economici: una volta gli Agnelli proprietari della Stampa e, di fatto, del Corriere della sera, e Berlusconi de Il Giornale e della Mondadori, si scontravano con Debenedetti di Repubblica ed Espresso; oggi Stampa e Secolo XIX affiliato e Repubblica fanno corpo unico, “ma salvando la loro indipendenza” (seee, come no!); a destra, Libero e il Tempo fanno lo stesso e prima o poi si intrupperanno con il Giornale.
Intanto, per eliminare le differenze, al posto di Maurizio Belpietro, che predica il “No” al referendum di Renzi, a dirigere Libero torna Vittorio Feltri. Così avremo un “Quotidiano della Nazione” di centrosinistra (e smettetela di ridere ché so’ cose serie!) e un “Quotidiano della Nazione” di destra. Tutti per il “Sì” a Renzi e chissenefotte della Nazione.
Dell’informazione televisiva ci risparmiamo di dire, andando dalla Rete1 delle domeniche “dagli al terrone” di Massimo Giletti alle deformazioni referendarie della Rete3 di Gerardo Greco.
In pratica, la fotografia della scena politica italiana, disegnata in ambienti massonico-criminali (dalle varie P-porcherie per affari non necessariamente loschi, ai referenti mafiosi dichiarati: Verdini, cane da guardia di Renzi, dice che il suo punto di riferimento è Marcello Dell’Utri, in carcere per mafia, condannato definitivo).
Sparite le distinzioni fra i partiti, le maggioranze sono a geometria variabile e schifezza costante: si comprano un tanto al voto, purché utili a banche, petrolieri, faccendieri, potentati economici del Nord, specie lombardi, che non producono più nulla (la grande chimica? La grande distribuzione? La meccanica? Montedison non esiste più, la Fiat è straniera, la Pirelli cinese, il cemento tedesco; persino i blocchi di voti un tanto al chilo per il sindaco di Milano vanno importanti da Pechino, che porta i suoi “cittadini milanesi”, intruppati e obbedienti, alle primarie del Pd). Altro che produrre, il Nord depreda risorse da tutto il Paese (Expo, Human Technopole, Mose, Alta velocità, Brebemi: l’autostrada nel vuoto inutile…).
Quanto può durare? Fino a che glielo lasciamo fare. Ogni giorno in più è una rapina in più e il rapinatore non ha interesse a fermare il sistema. Inoltre (vedi “Potere e sopravvivenza” di Elias Canetti), non conta che si muoia sulla zattera della Meduse, conta chi è l’ultimo a morire, mentre si fa strage degli altri naufraghi della stessa nave.
Per questo la complessità del potere viene ridotta e si eliminano le elezioni (Costituzione calpestata da Giorgio Napolitano e dai “suoi” governi ad personam, quale strumento e riferimento di poteri non tutti italiani, essendo lui iscritto a una loggia statunitense dal 1978, secondo “Massoni”); si elimina il voto (la “riforma” che non fa più eleggere il Senato e dà ai partiti il potere di “nomina” di buona parte dei deputati; agli elettori resta da prendersi per il culo da soli con il poco che resta); i conflitti democratici fra poteri dello Stato dissolti con l’occupazione scientifica di ogni ente e struttura non appecoronata al governicchio dell’Amato (e dai, si fa per dire) Leader.
Mentre intorno a noi il mondo cambia, i sopravvissuti della nave dei folli si sono appesi al timone, come se la rotta dipendesse davvero da loro, mentre vanno a schiantarsi sugli scogli.
E non si può fare niente? Certo che si può: essere contro, nel giorno per giorno, nell’associarsi con gli altri per contrastare le scelte scellerate di questa gentaglia, nel produrre idee, azioni, progetti che non sottostiano al potere e al pensiero unico.
E studiare, sapere, accrescere la conoscenza propria e di tutti. Il potere tende sempre a uno, ad appiattire; mentre la libertà e la cultura tendono a complicare, diversificare. Insomma, per dirla con una ordinazione al bar: il potere è la Coca Cola (dalla stessa bottiglia si riempiono i bicchieri di tutti e la formula è segreta: io so cosa ti faccio bere, tu bevi e zitto; e badate che non lo dico per anti-americanismo, visto che avremmo molto da imparare, da loro, la uso solo come esempio); la cultura è il caffè (non americano…): ristretto, al vetro, macchiato al latte freddo, con goccia di latte caldo, lungo, decaffeinato, in tazzina fredda, con la schiuma a cuoricino, amaro, con dolcificante, con zucchero di canna, normale in tazza grande, allungato con acqua calda, “sospeso”…
Su un caffè nascono popoli; sulla Coca cola, imperi che spesso mettono il loro personale di servizio a capo dei vari popoli.