Parlare di Silvana Mangano (1930-1989) può essere inutile visto che una figura così sfuggente non la si può cogliere che attraverso i suoi film. L’attrice, di cui molto si è discusso e raccontato, ha lasciato al pubblico un’immagine memorabile di grazia, labor limae psicologico, eleganza aristocratica, finezza recitativa in drammi e commedie.
Donna dall’insaziabile appetito culturale, riservata per il mondo ma con affetti intensi per i più intimi, divenne una sorta di Vittoria Colonna del nostro cinema. La sua bellezza ed il suo talento venivano racchiusi in una figura nobile nel senso più bello, lindo e completo del termine.
La sua figura di professionista supera in nobiltà i blasonati, i suoi ruoli si stagliano nella mente come immagini archetipiche: la madre di Tadzio nel film viscontiano Morte a Venezia è anche un’immagine della Madre così come la sua Giocasta pasoliniana o la madre di Teorema, sempre film del poeta di Casarsa. Pasolini, che aveva sempre un’idea pittorica del cinema, controllava moltissimo i suoi attori che protendevano alla fluidità e non al suo approccio più statico e cadenzato.
Con la Mangano lui capì che poteva creare Figure in senso espanso: vederla nel suo Edipo è come vedere una donna di Piero Della Francesca. Questo frammento della lettera a lei dedicata fa capire la comprensione tra questi individui così introversi e così aperti al turbamento del proprio mestiere. Parole bellissime di uno scrittore come pochi per una donna come poche:
Cara Silvana,
è tanto che ti devo una lettera. Una lettera, se non un «mazzo di magnifiche rose». Invece di scrivertela privatamente, te la scrivo pubblicamente. Ciò pone dei limiti alla confidenza e all’affetto; ma le conferisce, forse, un maggior valore.
È una lettera piena di amarezza. Un’amarezza confusa e imprecisabile – un disgusto leggero e immenso: che però non ti voglio comunicare. Si tratta forse del processo a « Teorema», che la gente crede sia per me un fatto di comune amministrazione, preventivato e giocato come in una specie di scommessa con la vita: e invece è un avvenimento drammatico. Se così non fosse mi sarebbe troppo facile (la mia lotta). Se non ci fosse in me – ineliminabile, coagulato nei giorni infantili – un conformismo che produce drammi, sarebbe troppo facile il mio anti-conformismo.
Non ti pare?
Nell’amarezza che provo (e che mi investe tutto, dall’alto al profondo) nello scriverti questa lettera, ha un ruolo importante la sensazione che il tuo lavoro con me non ti abbia dato la soddisfazione, che io speravo. (Tu, infinitamente più «amara» e più saggia di me, non avevi queste speranze, lo so). Ma, tuttavia, la spinta a scriverti questa lettera me l’ha data un viaggio di due giorni a Parigi (sempre per «Teorema»): dove, al «Dragon» stavano dando in prima visione per la Francia, l’ «Edipo Re»: è un grande successo – come si dice trionfalmente, tirando un sospiro – di «pubblico» e di «critica». Vorrei riportarti i brani in cui i critici parigini parlano di te. La soddisfazione (che tu non vuoi avere) sarebbe veramente grande.
Ma torniamo alla nostra amarezza ( di cui la soddisfazione parigina non è che una contraddittoria conferma). Amarezza, come stato diffuso e non realizzato di nevrosi. Nevrosi, come conflitto di conformismo e di anticonformismo. Di paura e di coraggio. Di grazia e d’impotenza. In modo così diverso, così profondamente diverso, ambedue ne siamo vittime. Forse su questa amarezza — che ci consente di lavorare con grande animo e con poca speranza direi… stoicamente — si fonda la nostra collaborazione così magicamente solidale. Siamo ugualmente puntuali e ligi come ragazzini bravi a scuola, non è vero?, e abbiamo un ben radicato senso del nostro dovere: non mancheremmo mai alla nostra parola… Non mi era difficile ‘contemplare’ tutti questi aspetti della tua natura – puntualità, senso del dovere, lealtà – mentre lavoravamo insieme, nel Marocco, a Roma, a Milano. Ed è tutto questo, strano a dirsi, che produce il mistero della tua bellezza. La tua bellezza amara: che si offre, incombente, come una teofania, uno splendore di perla; mentre in realtà, tu sei lontana. Appari dove si crede, si lavora, ci si dà da fare: ma sei dove non si crede, non si lavora, non ci si dà da fare. Richiamata qua da un obbligo che (chissà perché) si ha vivendo, resta la realtà della tua lontananza, come una lastra di vetro fra te e il mondo. Senza che ce lo siamo mai detto (dato il selvaggio pudore) la mia anima era spesso con te, dietro quel vetro. (…)
Dal Tempo Illustrato, 16 novembre 1968
Antonio Canzoniere