Ieri a quest’ora, probabilmente, stavamo correndo all’impazzata tra le strade della nostra città, sperando di trovare gli ultimi regali da incartare prima di mezzanotte. Probabilmente stavamo spintonando in mezzo alla folla del centro commerciale per acchiapparci le ultime offerte. Oppure stavamo facendo a gara per aggiudicarci l’ultimo panettone nel più buono pastificio del nostro piccolo paesino. L’ennesima vigilia frenetica, come ogni anno.
Ma per Riace non è stato così. Riace quest’anno non ha nulla da festeggiare. Quello che per vent’anni è stato il borgo simbolo di accoglienza, di inclusione, di rinascita, oggi non sta gioendo. Ed è un paradosso, dato che i valori che incarnava sono quelli da sempre associati allo spirito del Natale.
Ora il piccolo borgo calabrese è di nuovo spopolato. La chiusura dei progetti Sprar, il trasferimento dei molti ragazzi che vi aderivano, insieme all’allontanamento del suo sindaco, fanno da cornice a un quadro triste e spoglio: case disabitate, botteghe e negozietti chiusi, tanto silenzio per le strade. Il modello Riace, che tanto funzionava e che, per questo, tanto disturbava chi non ha mai cercato soluzioni al fenomeno migratorio, è stato zittito. Ma ammirato, applaudito e imitato da chi, invece, ha deciso realmente di rimboccarsi le maniche per aiutare tutti.
Per aiutare giovani ragazzi spossati da un viaggio stremante, dai caratteri spesso traumatici, crudi e mortali. Per aiutarli a imparare una lingua, ad apprendere un lavoro, a immaginare un futuro. Il loro e il nostro. Per aiutare anche un paesino del Mezzogiorno che di giovani ragazzi non ne vedeva da tempo. Per aiutarlo a far ripartire un’economia proprio grazie ai nuovi arrivati e a far tornare a casa i fuori sede, che avevano iniziato a vedere nel proprio borgo d’origine una speranza di vita. Per aiutare, infine, un Paese intero a credere nella possibilità di collaborazione, di unione di forze, di integrazione. C’è chi ci ha creduto e chi, forse, non ne ha compreso la grandezza.
Domenico Lucano, conosciuto in tutto il mondo come Mimmo, è uno di quelli che non ha mai avuto dubbi se crederci o meno. La sera della vigilia ha scritto un pensiero su Facebook. Me lo immagino aggrovigliato in un gomitolo di ricordi e speranze, lontano da casa, dagli odori delle sue strade, dalla vista della finestra della sua cucina.
In una notte di liberazione dalle miserie, dalle ingiustizie, dalle catene dell’odio, dalle barbarie, dalla disumanità voglio fare a tutti i miei auguri più grandi per un un mondo nuovo di amore e fraternità. Il vento continuerà a soffiare tra i vicoli abbandonati, contaminerà altri luoghi per fare in modo che la storia dei borghi di Riace non vada perduta per sempre. Un giorno ci sarà sempre qualcuno che dirà: “No, i compagni non si sono dimenticati, guarda laggiù in fondo al corteo quelle bandiere agitate dal vento”. Gli ideali non moriranno mai. Hasta Siempre.
Prima di rimarcare la nostra personale posizione sulla fine di Riace, sulle accuse a Lucano, sul fenomeno migratorio, proviamo a fare tutti un passo indietro, che poi è il più grande passo avanti che potremmo fare. Proviamo a focalizzarci sulle storie, sulle vite. Proviamo a entrare in empatia con chi ha fatto cosa, e per che cosa. Cominciamo con il farlo a Natale, che si dovrebbe essere tutti più buoni e più umani.
Immaginiamo la storia del panettiere Carmine che di panettoni non ne ha venduti, perché nessuno ormai compra più, a Riace. Di Imal che adesso vive per strada e che rischia ogni notte la pelle se lo trovano, ma scappare non può e il mare, adesso, lo terrorizza. Di Sara che sperava di trovare un lavoro vicino alla sua famiglia, una volta finiti gli studi, e che invece è costretta a tornare a Milano. Sotto l’albero di Natale, ne sono convinta al cento per cento, tutti loro avrebbero desiderato il medesimo regalo: la Riace colorata, prosperosa, solidale e accogliente che era prima.
Ilaria Genovese