Federico Moccia non ha capito granché del femminicidio o non ha capito il sé stesso che ne scriveva (cosa più che plausibile) se ha cominciato l’articolo pubblicato pochi giorni fa sul Corriere della Sera ” Femminicidio, la cultura dell’amore e del rispetto contro la violenza ” giustificando chi ammazza moglie e figli e distribuendo colpe tra il killer e la vittima.
Avete capito bene. E’ quello che ha scritto. Tra un colpo al cerchio della cultura dei diritti delle donne, e un colpo alla botte della sottocultura di stampo patriarcale, Moccia sciorina banalizzazioni, luoghi comuni e contraddizioni su un argomento complesso come il femminicidio e le sue innumerevoli manifestazioni.
Perché proprio Moccia sia stato chiamato, dal Corriere della Sera, a dissertare sul femminicidio non lo sappiamo e dovremmo chiederlo al direttore. E’ stata una scelta infelice, che rivela la solita superficialità con la quale si continua a considerare il fenomeno della violenza contro le donne come una questione alla portata di chiunque, o di cui fare chiacchiere da salotto o a bar.
Per chi non lo ricordasse, Federico Moccia è l’ autore di Tre metri sopra il cielo e Ho voglia di te, due romanzi di successo tra gli adolescenti all’inizio degli anni 2000, da cui sono stati tratti due film (ahinoi). Dall’imitazione dei protagonisti di Ho voglia di te, Step e Gin, è seguita la malsana moda, diffusa tra giovani coppie, di appendere lucchetti chiusi al Ponte Milvio come simbolo di indissolubilità dell’amore (sgombrati nel 2012 perché rischiavano di danneggiare i lampioni).
Sarebbe questo il “curriculum” che renderebbe Federico Moccia edotto in tema di femminicidio? Due romanzi d’amore per adolescenti?
Il suo articolo sul Corriere della Sera pare sia stato ispirato da un episodio di violenza avvenuto a Tufello dove un 78enne ha colpito la moglie con un bloccasterzo. Moccia comincia il pezzo con la citazione della Convenzione di Istanbul, ricorda le vittime, dichiara “mai più”, poi prosegue colpevolizzando l’anziana signora e le donne uccise in generale. Scrive:
“Se un uomo di una certa età decide di uccidere la moglie o la compagna di una vita perché magari è deluso dal fatto che certe dinamiche di coppia siano cambiate, perché il suo progetto di vita si è interrotto e con esso la complicità che c’era, o perché magari non si è trovato prima il modo e il coraggio di dire che un sentimento era finito da anni, il suo gesto tradisce il valore del tempo e l’obbligo etico che abbiamo tutti di viverlo al meglio e con sincerità, ma la loro colpevolezza è pari. Non hanno saputo vedere le loro mancanze, domandarsi che cosa non è andato, perché quel rapporto è fallito”.
Insomma per una donna dire addio al partner è una colpa che vale la pena di morte. E già che c’è, giustifica anche l‘uccisione dei figli:
“La persona si sente fallita, si sente sola, tradita, allora se la prende con la persona amata e cerca di ferirla ancora di più: se la prende con i figli, con l’amore più grande, che poi dovrebbe essere anche il suo”.
La realtà racconta ben altro. Il 51% delle donne che si separa lo fa a causa della violenza, il femminicidio spesso è l’atto finale di una sequenza di violenze e gli uomini violenti lo commettono perché non accettano che la partner si sottragga al loro controllo. E’ l’ultimo e definitivo no! alla possibilità di una donna di vivere esprimendo la propria libertà e soggettività. E’ l’oggettivazione finale: il corpo femminile inerte o ferito e quindi devitalizzato, finalmente privo di volontà, trofeo dell’oppressione e del controllo maschilista che non ammette né il conflitto, né la chiusura di una relazione. “O sei mia per sempre e vivi in funzione mia e dei miei bisogni, o muori” è il dictat.
A questo punto non può essere ininfluente nella costruzione dell’articolo sul Corriere della Sera e di tutta la dissertazione sulle colpe per la fine dell’amore, la fantasia che l’autore di Ho voglia di te ha fatto vivere ai suoi protagonisti: quella di suggellare l’inizio di una storia d’amore con la chiusura di un lucchetto di cui si getta via la chiave, con la promessa di indissolubilità: “poi non ci si lascia più”. Peccato che sia lo stesso immaginario di riferimento di chi poi passa all’atto e suggella quel “per sempre” con un atto di morte.
Federico Moccia con il suo immaginario sull’amore sigillato da un lucchetto chiuso di cui si butta via la chiave (“buttar via la chiave” è anche un modo di dire legato alla fantasia di rinchiudere qualcuno in carcere a vita) è in grado di scrivere di femminicidio e di violenza contro le donne? Penso che dovrebbe farsi qualche domandina, come molti adolescenti o adulti che sui suoi romanzi sognano l’amore,per sempre.