E’ ormai ben nota la propensione di Matteo Renzi per le sfide che lo pongano al centro dell’attenzione mediatica, ma quando il 10 gennaio scorso ha dichiarato ai microfoni del Tg1 che la riforma costituzionale sarà “la madre di tutte le battaglie”, si è compreso che stavolta la posta in gioco è davvero alta: nonostante il tentativo di schermirsi (“Il referendum non è un plebiscito”), il Presidente del Consiglio ha chiaramente legato all’esito del referendum la tenuta del Governo e della sua stessa leadership, dichiarandosi pronto a “trarne le conseguenze” in caso di sconfitta. Come era facilmente immaginabile, il clima politico si è immediatamente infiammato. Appena due giorni dopo Magistratura Democratica, che all’interno dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) si distingue per un orientamento politico marcatamente di sinistra, ha dichiarato l’adesione al Comitato per il No, paventando nientemeno che un rischio per “l’architettura democratica della Repubblica”. Nel documento di MD si specifica (excusatio non petita?) che il referendum costituzionale non deve essere letto come un referendum sul grado di apprezzamento nei confronti del governo, ma la forte insistenza sulla necessità di un “rinnovamento reale e democratico […] per la tutela dei diritti fondamentali” ne fa un deciso affondo nei confronti dell’operato di governo sul fronte delle riforme. Se le reazione di Magistratura Democratica, pur nella sua durezza e coloritura politica, proveniva comunque da esperti del Diritto ed aveva dunque il pregio di mantenere al centro l’oggetto della contesa, la reazione del M5S, affidata al blog beppegrillo.it, si è tradotta in un duro attacco politico a Renzi, in cui è impossibile cogliere contestazioni specifiche al disegno di riforma costituzionale. Tal riforma arriverebbe addirittura a “cancellare la Democrazia con un colpo di spugna”, mettendo il Paese “ nelle mani di un premier affetto da manie di grandezza”, e pertanto votare contro tale scellerata riforma sarebbe non soltanto “un dovere civico […] ma un modo un modo per salvare la nostra democrazia da una vera e propria involuzione anti democratica”. Non poteva mancare l’attacco al “Governo mai eletto”, colpevole di voler stravolgere la Carta Costituzionale. Peccato che il Governo si sia insediato nel pieno rispetto della Costituzione che si vorrebbe oltraggiata, la quale non prevede alcuna elezione diretta del Presidente del Consiglio (non “premier”, come si legge nel blog). Ma questa è un’altra storia.
La contrapposizione tra fautori delle riforme e gufi “immobilisti” è senz’altro una componente importante della narrazione renziana, e aver alzato la tensione sul referendum costituzionale con mesi d’anticipo può essere stata una buona mossa politica in considerazione delle numerose incertezze che aleggiano sulle prossime elezioni amministrative. Ma una cosa è certa: trasformando il referendum costituzionale in un referendum sulla sua leadership, Matteo Renzi ha fatto un grande torto alla sua stessa riforma costituzionale, di cui si dice tanto orgoglioso, poiché i suoi contenuti hanno finito per essere offuscati dalla diatriba politica. Da buon apprendista stregone, il Presidente del Consiglio ha suscitato reazioni “mostruose”, che forse solo nei peggiori incubi avrebbe potuto immaginare. Imbattibile l’articolo di Don Paolo Farinella del 14 aprile, pubblicato sull’edizione online de Il Fatto Quotidiano, nel quale il sacerdote pasionario ha parlato senza mezzi termini di “macelleria costituzionale” e, nell’accostare Renzi ad autocrati del passato come Alessandro Magno o Giulio Cesare, gli ha ricordato senza andare tanto per il sottile che entrambi hanno fatto una brutta fine. Il capolavoro è comunque l’invito finale alla resistenza, da mettere in atto votando contro le “trivelle”. Sì, perché nella logica farinelliana “tutto si tiene”. Per par condicio va detto che nemmeno nelle file della destra ultra-conservatrice sono mancate reazioni grottesche, come quella di Massimo Gandolfini, leader del Family Day e portavoce del comitato “Difendiamo i nostri figli”, il quale, alla vigilia dell’approvazione in Senato del DDL Cirinnà, ha invitato il suo popolo a votare contro le riforme costituzionali, con evidente spirito di rappresaglia. D’altra parte lo striscione “Renzi ci ricorderemo” era stato assai eloquente al riguardo.
La dialettica referendum-plebiscito ha reso inoltre Pierluigi Bersani ancor più enigmatico e nebuloso del solito, tanto che si è addirittura parlato, non senza ironia, di un “Bersani incomprensibile”. La prima parte del suo intervento alla trasmissione Di Martedì del 3 maggio è in realtà abbastanza chiara: l’ex Segretario del PD riconosce che la riforma costituzionale, da lui approvata pur tra problemi e richieste di modifica, costituirebbe un passo in avanti. Ciò che Bersani afferma di non gradire è il clima da “madre di tutte le battaglie”, come se si trattasse di uno scontro “fra arcangeli e gufi” – qui spicca il ben noto gusto per le metafore eccentriche. Insomma, Bersani non vuol farsi trascinare in un “plebiscito a due passi dal delirio”. E’ tuttavia la seconda parte a rivelare tutto l’imbarazzo di Bersani e dei bersaniani: non si capisce bene, infatti, perché un eventuale accordo di Renzi con i verdiniani di Ala dovrebbe smarcarli dal sostenere una legge che essi stessi hanno votato e che non può ovviamente essere cambiata dopo la definitiva approvazione del 12 aprile. Bersani dice che se gli cambiano “il bambino nella culla” si sente libero (di votare anche no), ma il “bambino” non può che rimanere lo stesso, al massimo può cambiare un po’ la cameretta. Risparmio ai lettori la parte conclusiva, fra “union sacrée” contro i barbari e aleggianti alleanze anticomuniste con la mafia: servirebbero strumenti di esegesi bersaniana di più alto livello, che non padroneggio ancora con sicurezza.
Ma allora dobbiamo rassegnarci a votare d’istinto, per mera appartenenza politica, o al limite a naufragare negli amletici dubbi di Bersani? A mio avviso no, siamo ancora pienamente in tempo per documentarci con serenità su un referendum che andrà ad incidere fortemente sugli strumenti di rappresentanza della sovranità popolare, la nostra sovranità, e modificherà in modo significativo il processo decisionale, con grandi ripercussioni non solo sul sistema politico ma anche sulla vita sociale ed economica del Paese. Si parla dunque di possibili cambiamento di portata epocale, che andrebbero ben oltre la durata della leadership renziana. La valutazione nel merito delle articolate riforme costituzionali richiederebbe quale primo step la lettura integrale del testo del cosiddetto DDL Boschi, il DDL 1429 B, liberamente consultabile nel sito del Senato. Si tratterebbe comunque di un esercizio assai complesso e faticoso per chi non abbia una piena padronanza del diritto costituzionale.
Si può allora individuare un buon punto di partenza nelle posizioni assunte da autorevoli giuristi a beneficio dell’opinione pubblica, con rigore metodologico e allo stesso tempo con un linguaggio divulgativo adatto anche ai “profani” in materia di diritto costituzionale. Particolarmente interessante è il documento pubblicato da 50 illustri costituzionalisti, che hanno espresso e loro valutazione critiche sulle riforme costituzionali oggetto del referendum. A scanso di equivoci, gli autori hanno precisato in apertura di non ravvedere in tali riforme “l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo”. Essi ritengono tuttavia che tale processo di riforma, “pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni”, possa tuttavia introdurre “nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione”. E il documento si rileva in effetti una critica attenta, ben ponderata nella sua formulazione, che rifugge da qualsiasi spirito di contesa politica. La prima obiezione riguarda proprio la modalità con cui è stata approvata la legge, a colpi di maggioranza e al termine di un’aspra lotta politica. Gli autori ricordano invece che “la Costituzione non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti, legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica”. Proseguendo nella lor analisi, gli autorevoli costituzionalisti sostengono che il pur lodevole obiettivo del superamento del bicameralismo perfetto sia stato perseguito in modo inadeguato, indebolendo oltremodo la consistenza numerica e le prerogative del Senato ed introducendo procedimenti legislativi complessi che potrebbero dare adito a incertezze procedurali e conflitti fra le due Camere. Eccessiva sarebbe inoltre la riduzione delle competenze delle Regioni (Titolo V): esse andrebbero a perdere quasi ogni spazio di competenza legislativa, e con esso ogni sostanziale autonomia, venendo inoltre private delle loro essenziali responsabilità sul piano fiscale e finanziario. Sotto attacco è anche il principio-guida del contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, che secondo gli autori del documento non deve mai essere perseguito a spese della “ricchezza e la vitalità del tessuto democratico del paese” e della “partecipazione dei cittadini all’esercizio dei poteri”. A riprova del carattere equilibrato del manifesto, non mancano elementi considerati positivi, come la restrizione del potere del Governo di adottare decreti -legge, la previsione della possibilità di sottoporre in via preventiva alla Corte costituzionale le leggi elettorali, scongiurando il rischio di andare a votare sulla base di una legge incostituzionale e la promessa di una nuova legge costituzionale, che consenta di indire referendum propositivi e di indirizzo. Molto importante è poi a mio avviso l’ultimo punto, che sottolinea la necessità di una pluralità di quesiti referendari, per evitare che i cittadini siano costretti ad un voto unico, su un testo assai complesso, articolato, ed disomogeneo, facendo prevalere ragioni politiche che dovrebbero invece rimanere estranee a tali valutazioni.
Più fiduciosi nelle riforme costituzionali sono invece altri due insigni giuristi, Giuliano Amato, già Presidente del Consiglio (1992-1993, 2000-2001) e dal 2013 giudice della Corte Costituzionale, e Sabino Cassese, grande esperto di Diritto Amministrativo e giudice emerito della Corte Costituzionale. Entrambi hanno partecipato ad un incontro sul tema delle riforme costituzionali, organizzato lo scorso 27 aprile presso Centro di Studi Americani a Roma. Secondo il “Dottor Sottile”, il superamento del bicameralismo perfetto, dopo 40 anni di tentativi, sarebbe quantomai necessario, poiché in tale sistema imperfetto né il Governo né il Parlamento riuscirebbero ad esprimere una forza adeguata. Il nuovo sistema introdotto dalla riforma, invece, andrebbe a rafforzare l’esecutivo, senza per questo indebolire necessariamente il Parlamento, giacché la presenza di una Camera in cui non viene votata la fiducia potrebbe costituire un limite per il Governo. Amato ha inoltre accolto con sostanziale favore la nuova composizione del Senato, affermando di essere stato sempre “favorevole ad avere nella legislazione nazionale il punto di vista delle regioni”. Ben più esplicito è stato l’endorsement di Cassese, che si è dichiarato apertamente un sostenitore della riforma costituzionale, in quanto essa porrebbe fine ad un sistema, il bicameralismo perfetto, che avrebbe ormai esaurito la sua funzione. Per il nuovo sistema, Cassese ha utilizzato l’interessante definizione di “monocameralismo temperato”, che in virtù della nuova composizione del Senato scongiurerebbe il rischio di “rappresentanza amministrativa e non costituzionale” per le regioni. In un articolo pubblicato sulla versione online del Corriere della Sera, Cassese ha inoltre individuato nei consigli regionali, introdotti nel 1970, e nel Parlamento europeo, elletto per la prima volta nnel 1979, dei fondamentali organi di contrappeso, cui va aggiunta la Corte costituzionale, “organo di bilanciamento per eccellenza”, in funzione dal 1956. Grazie a tali contrappesi si sarebbe dunque esaurita per Cassese l’originaria funzione di controllo e bilanciamento del Senato, che peraltro esso avrebbe assolto poco e male, rivelandosi piuttosto “un doppione o un fattore di ritardo”.
In conclusione, se nei prossimi mesi assisteremo ad uno scontro politico sempre più aspro, non mancherà comunque la possibilità di informarci sul merito delle riforme e – perché no? – aumentare le nostre conoscenze su un tema affascinante come il Diritto Costituzionale, fons fontium, fonte fondamentale dello Stato e delle sue leggi.