Si dice che siamo figli del nostro tempo, poiché influenzati dal secolo, dal periodo storico in cui viviamo; è inevitabile che anche il luogo in cui nasciamo sia un’indelebile parte della nostra identità.
Il Sud Italia ha sempre costituito una categoria a parte, c’è sempre stata la questione meridionale. La divisione tra Nord e Sud del mondo ha assunto molteplici significati, tra cui quello di indicare il sud come la parte più povera e arretrata, e questo caso non fa eccezione. “L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà” fu la previsione di Giuseppe Mazzini: cos’è il Mezzogiorno oggi, il Mezzogiorno del ventunesimo secolo? È davvero così diverso da ciò di cui parlava uno dei principali fautori intellettuali del Risorgimento italiano?
Dal 1861 a oggi
In soli centocinquanta anni il nostro Paese ha fatto passi da gigante. Ha attraversato ben due dopoguerra e ben due boom economici; è stato uno dei fondatori dell’Unione Europea, è entrato a far parte della NATO, ha varcato la soglia del 2000 e si è scagliato bruscamente contro la crisi economica del 2007. Si sono succeduti 12 Papi e, da dopo la fine della monarchia, 12 Capi di Stato; per non parlare delle riforme sul voto e delle leggi che hanno completamente rivoluzionato i costumi. Insomma, il nostro “bel Paese” è cambiato in pochissimo tempo.
Noi, per fortuna, non abbiamo conosciuto la fame, la povertà e l’isolamento dei braccianti, condizione in cui tantissimi nostri avi hanno vissuto per secoli. Bisogna infatti tenere presente un dato a mio avviso fondamentale: la principale ricchezza dell’Italia è sempre stata la sua terra, l’agricoltura. Non siamo ricchi di petrolio, gas e pietre preziose, ma abbiamo sempre posseduto la materia prima (e che materia preziosa, aggiungerei).
Il Sud, questo sconosciuto
Il Sud Italia ha sempre vissuto una situazione di svantaggio maggiore: frutto delle politiche degli invasori stranieri che se ne servirono, e che portarono a una privazione più che a un arricchimento; a un sistema basato sulla corruzione e sul dominio della classe aristocratica, dove il popolo, e cioè la maggioranza, viveva nell’ignoranza e nella miseria.
Anche qui ci sarebbe tanto da aggiungere, ma il dato più importante è che questo divario già presente non riuscì a rientrare neanche dopo l’Unitá dell’Italia stessa.
Le infrastrutture e l’industrializzazione sono fenomeni che lo interessarono relativamente rispetto al resto d’Italia, in maniera minore. L’oppressione e il malcontento sfociarono in rivolte di bande armate di briganti. Lotte represse nel sangue. Il Brigantaggio rimane oggi una delle pagine più oscure e significative del nostro Paese: un sintomo di dolore e disperazione, ribellione poi evolutasi in criminalità. Perché, purtroppo, a volte la mancanza di prospettive porta a prendere la strada sbagliata.
I due grandi movimenti migratori del Novecento
Nella seconda metà del ventesimo secolo ci fu una massiccia emigrazione di italiani dal Sud al Nord Italia, pari a quella degli italiani partiti per le Americhe durante la prima metà del Novecento; partivano con la voglia di cominciare una nuova vita, una vita fatta di sogni e di speranze. Partivano con ‘la valigia di cartone’ perché non possedevano nulla e volevano lavorare. La mia bisnonna partì per Torino e lavorò per la Fiat; tanti altri, come lei, lasciarono tutto, lasciarono il ricordo della loro terra per poter portare avanti una famiglia nella speranza di una vita diversa. Si stima che complessivamente furono circa quattro milioni gli italiani del Meridione che andarono a stabilirsi nel triangolo industriale.
Emblematico in questo contesto è il film di Luchino Visconti Rocco e i suoi fratelli, in cui emerge chiaramente come le differenze tra Nord e Sud fossero talmente marcate che, anche solo vedere la neve di Milano per la prima volta o ammirare le abbaglianti luci delle vetrine, desse la piena sensazione di essere in un altro mondo.
Nel 2018 convivono ancora due Italie diverse
Ad oggi, nel 2018, abbiamo parecchi numeri su cui riflettere: nel 2016 il flusso degli italiani emigrati all’estero avrebbe raggiunto un livello pari a quello di fine Ottocento e del dopoguerra (fonte Il sole 24 ore); quindi oltre 250.000 persone hanno abbandonato il nostro Paese. I rapporti Istat evidenziano come il Sud sia doppiamente colpito dalla “fuga dei cervelli”, ovvero la migrazione dal Sud Italia porta molti giovani laureati sia all’estero che al Nord Italia (in Basilicata, Calabria e Sicilia si arriverebbe a un tasso migratorio tra -26 e -28 per mille). I dati dell’Istat i dicono anche che la disoccupazione nel 2017 si è ridotta, ma che “i divari rimangono accentuati: nel Mezzogiorno (19,4%) è quasi tre volte quello del Nord (6,9%) e circa il doppio di quello del Centro (10,0%)”. Parlando di reddito medio pro capite, la situazione non migliora: Bolzano si conferma prima (con una media di 42.600 euro annui per abitante), mentre ultima si conferma la Calabria (reddito medio pro capite di 17.000 euro). Sono dati del 2018 che ci dicono che c’è un divario copioso tra il reddito delle famiglie del Nord e quelle del Sud, e la disoccupazione (anche giovanile) presente nel Mezzogiorno non può che continuare ad allarmare.
Siamo nel 2018 e non nel 1861, eppure si parla ancora di due Italie diverse, frutto di un susseguirsi di politiche che non hanno saputo risanare questa rottura e portare a una crescita sufficiente per colmare questo dislivello. Parliamo di due Italie diverse non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista ideologico.
Essere figli del Sud non può essere una condanna
Di storie sul Sud Italia ce ne sono tante. Il Sud ci parla, il Sud ha la sua storia. E non è sempre una storia di tristezza, di abbandono o criminalità. La terra del Sud parla. È una terra di sacrificio, di lacrime e di sangue, che ogni giorno regala migliaia di piante e di frutti meravigliosi. Succulenti e variopinti doni portati avanti dalla cura e dall’amore.
Essere figlio del Sud significa essere benedetto come essere condannato. Essere figlio del Sud significa sapere senza conoscere. Questi non sono luoghi comuni, sono la realtà.
Essere figli del Sud vuol dire prendere consapevolezza dell’ambiente circostante.Vediamo l’ambiente intorno a noi come un qualcosa di ambiguo, che non sempre ci rispecchia. Troppi pochi stimoli, troppe poche iniziative culturali (o poco diffuse), pochi sbocchi lavorativi. Iniziamo a vedere che le strade in cui siamo cresciuti sono troppo spesso teatro di gesti inconsulti, e che tanti nostri amici hanno preso la via sbagliata.
Se scegliamo di andare a studiare fuori, e ne abbiamo la possibilità, magari scegliamo un’università in un’altra città, magari più a Nord (lì ci sono la maggior parte degli Atenei migliori secondo il Censis). E poi perché, ovviamente, vogliamo fare un’esperienza di vita diversa, da soli, lontano. E lì ci rendiamo conto di cosa sia la libertà e di quante realtà diverse dalla nostra esistano. Infinite. Restiamo legati alla nostra terra, ma sappiamo che probabilmente non torneremo mai a vivere lì o a lavorarci. Questa rimane una prospettiva per pochi fortunati. Noi non sappiamo neanche se un lavoro lo avremo.
Essere figli del Sud vuol dire cercare di allontanarsi dalla rassegnazione della propria terra per provare ad emergere.
Questo è quello che fanno tantissimi lavoratori e pendolari, ed è quello che stanno facendo tante nuove generazioni. Le radici non si possono tagliare, crescono insieme a noi, rimangono aggrappate lì, nel profondo. Sono fondamentali, ci danno vita. La speranza è che il Sud non muoia, che il Sud trovi la forza per non rimanere abbandonato a se stesso. Io mi auguro che l’appello del Sud non rimanga inascoltato, un grido di aiuto lungo ormai secoli, che la mentalità del Sud possa cambiare, che le città e la popolazione possano essere più a contatto con lo sviluppo e col progresso.
Il Sud segue un tempo diverso, un tempo solo suo. Quel tempo lento, il tempo del caffè.
Maria Laura Riccardi