Una volta erano scapoli, zitelle. Termini che evocano quel non so che di negativo. Oggi, mutatis mutandis, ci ha pensato quel forestierismo a edulcorare il tutto. Single è quella persona sola, non necessariamente con quell’aura di triste solitudine.
La mancanza di un rapporto stabile col partner non è più vissuta come un’esistenza monca, ma come sinonimo di autonomia, libertà, indipendenza. Oggi stare in coppia richiede un impegno che non sempre si è disposti a garantire, i doveri familiari cui si ha sempre meno tempo da dedicare fanno apparire la libertà della solitudine come uno status privilegiato di leggerezza. Come se si fosse liberi di correre verso la propria autorealizzazione. Naturalmente, si tratta di prospettive. Molti sono infatti coloro che, al contrario, si sentono realizzati in coppia.
Il fenomeno “single per scelta”, tra chi fin da giovane decide di non legarsi e chi approda in coppia solo in una fase più matura, è in costante aumento ed è vissuto con maggiore serenità e consapevolezza rispetto al passato. Si tratta di una risposta concreta di adattamento a una vita che, tra pressioni sociali e lavorative, rende sempre più difficile vivere consapevolmente i propri desideri e le proprie esigenze.
Quel modello di una volta, in cui a dominare erano dedizione a famiglia e lavoro, si trova oggi a confrontarsi con la spinta a quel “sano amor proprio” che si è fatta spazio nei decenni. Il single mette al centro della propria vita una fitta rete di rapporti sociali e virtuali, per cui non si priva di fatto del concetto di relazione. Vissuta in maniera più ampia e sfaccettata, la relazione stabile è rappresentata dalla rete di amici. Magari talmente vasta da essere necessariamente superficiale, ma pur sempre il perno dell’equilibrio di un individuo. Quel “centro di gravità permanente” che dà serenità e sicurezza a un uomo. E’ con questo tipo di equilibrio che ci si approccia al “tempo per sé” che ci fa esprimere, ci fa sperimentare le nostre inclinazioni che ci conducono all’appagamento.
C’è chi giunge allo status di single perché ha accumulato troppe delusioni di coppia; chi ha una carriera galoppante, che poco spazio lascia a relazioni sentimentali stabili. Chi non ha voglia di investire energie nel dialogo di coppia per farsi capire e chi non ama il concetto di vincolo in sé. A prescindere dalla motivazione, la meta finale resta sempre l’armonia con sé stessi. Vivere da soli, stare bene con sé stessi, è un traguardo fondamentale. Stare nei propri panni è uno step importante per raggiungere quella condizione di felicità di cui tutti parliamo. E non è né una chimera, né un sentiero facile, perché mentre lo percorriamo dobbiamo spogliarci di tutti i condizionamenti che premono sul nostro quotidiano. Cosa non semplice, date le aspettative familiari, culturali e sociali che incombono su di noi.
Pare ci sia una predisposizione all’autonomia, che trapela dal non sentire il bisogno di condividere con l’altro, né dal sentirsi uguale o simile all’altro. Anzi, è questo “non sentire il bisogno di” che favorisce l’autocompiacimento e una più serena accettazione di sé. Va bene, tutti ma proprio tutti desiderano quel pizzico di autonomia. Ma per alcuni è una vera e propria “chiamata”. Difficile far comprendere agli altri le proprie motivazioni. Chi non vive questa condizione di “beata solitudo” trova in genere le più svariate spiegazioni: “è sfortunato…fa scappare le persone…ha un caratteraccio”. Occorre però scardinare questo tipo di schema mentale. Si può essere single senza essere misantropi.
I numeri, del resto, lo attestano sia oltreoceano che da noi, in Italia. C’è un libro, “All the Single Ladies – Unmarried Women and the Rise of an Independent Nation”, scritto dalla giornalista del New York Times Rebecca Traister che spiega come la fascia di donne adulte single negli Stati Uniti sia sempre più ampia, al punto da superare la percentuale di americane adulte e con marito e da acquisire un certo peso politico in termini di elettorato. Cita Charlotte Bronte l’autrice, per comparare le condizioni di “zitellaggine”. Ai tempi della Bronte, il non avere marito comportava l’esclusione da qualsiasi opportunità economica e sociale. La cosa – secondo la Traister – è iniziata a migliorare man mano che le donne hanno iniziato a ritardare il fatidico sì ai 30 e poi ai 40 anni.
Da noi, il numero di donne (e uomini) che non sognano l’abito bianco progredisce a un ritmo di diecimila matrimoni in meno ogni anno. E se i tempi cambiati non dovessero bastarci per legittimare questa scelta, ecco che a perorare la causa è intervenuto Hasse Walum, ricercatore dell’Istituto Karolinska di Stoccolma. Costui ha trovato nell’uomo (no, non nell’essere umano. Nel maschio) un gene, responsabile della produzione del recettore di vasopressina, un neuropeptide che ha molte funzioni nel cervello e nel resto del corpo, dove agisce da ormone. Differenti versioni del gene corrispondono a differenti inclinazioni al rapporto di coppia. La forma 334, in particolare, si riscontra in maschi propensi alla vita da single, celibi o con matrimoni falliti alle spalle. In un gruppo di 2186 maschi adulti, i ricercatori hanno studiato la sequenza genetica del recettore dell’ormone, esaminando il comportamento dei soggetti nei rapporti di coppia. I soggetti “modello 334” hanno mostrato una chiara indole più solitaria e meno fedele al partner. Se vi accusano di essere immaturi, egoisti, solitari, e la psicologia non basta, provate con la genetica!
Alessandra Maria